Racconto di Matteo Consiglio

(prima pubblicazione)

 

Ancora una volta mi hanno messo alla gogna.

Ricordo tutte le volte in cui ho passato anche diversi giorni nella sua stretta. Ricordo le piaghe sul collo e sui polsi. Ricordo la carne sotto la pelle lacerata che struscia sul ferro rugginoso e sul legno marcio, e sporco del sangue e del pus di altri che alla gogna furono messi prima di me. La puzza della gogna. Il suo olezzo acre di sangue marcio. La fame e la sete, e certo non posso dimenticare il disprezzo, di tutti, persino di chi ero arrivato a considerare amico. Gli insulti gridati all’orecchio trattenendomi per i capelli, gli sputi, le botte. Senza considerare la domanda più ricorrente, fra i più accaniti; quelli che in prima fila si contendevano la gogna per potermi trascinare, strattonare, per mostrarmi al resto dell’orda:

“ti credevi migliore degli altri?”

Mai pensato. Mai pensato neppure di formulare, una norma che potesse rendere oggettivo un criterio secondo il quale avrei potuto ritenermi migliore o anche solo al pari degli altri. Io sono sempre stato peggiore. Più abietto, più vigliacco, più debole; fisicamente e mentalmente. Qualsiasi epiteto, per quanto spregiativo sia, non lo sarà mai abbastanza perché io arrivi a rifiutarlo. Sempre ho cercato di essere umile. Né mai ho cercato di insegnare qualcosa a qualcuno.

Mai a nessuno ho permesso però di prevaricare sulla mia persona.

Nel momento in cui, questo nessuno, in virtù della mia mitezza, iniziava a pensare di potermi sottoporre a una vessazione di qualunque genere, allora incontrava la mia opposizione inflessibile. Era allora che il disprezzo nei miei confronti, catalizzato dalla mia indocilità, dalla quale era primieramente scaturito, deflagrava in un fragoroso pubblico scoppio di rabbia, che mi si rovesciava addosso come uno smottamento.

Allora capivo che era il momento della gogna.

Non lo capii la prima volta, ma imparai a capirlo già dalla seconda. La prima volta che venni messo alla gogna ero ancora giovane. Ormai però, non ero più così giovane perché si potessero considerare ingenuità le mie azioni e le mie parole, quindi fui punito per il solo fatto di essermi espresso. In seguito imparai a misurare le mie azioni e le mie parole per evitare la gogna, ma purtroppo, compresi presto, che nonostante le mie prudenze, questa non smetteva di incombere sul mio presente, e le mie prudenze potevano solo attardare l’azione, ma non riuscivano mai a impedire che questa azione venisse portata a compimento.

Non lasciavo, le prime volte, che mi si mettesse alla gogna deliberatamente: combattevo, difendevo le mie ragioni, e alla fine mi dimenavo fino allo sfinimento perché non avessero vita facile quelli che volevano fare di me un fantoccio da conformare a forza al loro modo di vivere. Ma lottare costava quanto stare con il ceppo alla nuca. Essere piegati con la violenza significa essere massacrati nell’esercizio più brutale di questa, prima di essere torturati con la gogna; essere ridotti all’impotenza a forza di percosse.

Col tempo imparai a risparmiare a me stesso almeno questa parte della punizione, che compresi essere quella potenzialmente più pericolosa per la mia incolumità. Le botte, che mi raggiungevano come segno di disprezzo mentre stavo aggiogato, non le vidi mai come una reale minaccia, e la gogna si rivelò meno tormentosa, essendo stretta con meno accanimento, se lasciavo che mi venisse messa senza opporre resistenza.

Ma rimaneva comunque un supplizio.

Restare intrappolato dentro quel diabolico apparecchio significa trovarsi in una condizione in cui non ci si può muovere, se non un minimo per scacciare il tormento della pelle schiacciata sul legno nello stesso punto per ore, ai polsi e al collo; o il tormento delle ginocchia e delle caviglie, e delle natiche appoggiate a terra. A volte per giorni si deve sopportare il supplizio dei movimenti che nel tentativo di lenire la sofferenza delle piaghe, creano a loro volta una spossatezza insostenibile per sfuggire alla quale si devono sopportare quelle stesse piaghe. Semplicemente si impazzisce.

Le prime ore, nelle quali calci, pugni e disprezzo di una moltitudine si contendono il corpo del colpevole, sono meno peggio di quanto accade successivamente.

Prima, masticando rancore e sangue rappreso, si cerca di sopportare i primi indolenzimenti causati da questo strumento infernale, annaspando nella melma della follia per l’esasperazione. Poi le cose gradualmente peggiorano: le piaghe cominciano a sanguinare, la prostrazione riduce i movimenti che danno sollievo, e subentra la fame. La sete incombe costantemente bruciando la gola e rodendo il cranio dall’interno. Per ultima, arriva la frustrazione del desiderio insoddisfatto di morire.

Cresce dal cuore, ostinato nel suo dovere di battere, per raggiungere gli occhi come se si colmasse una misura che trabocca nel pianto, soffocato però dallo sfinimento. La rabbia verso il destino, verso gli altri e verso se stessi, verso il proprio corpo che insiste nel suo proposito di pervertire l’anima nella sua purezza, diventa la voce di quel desiderio di morire.

Poi, si avverte come se, mondata delle lordure dell’odio, l’anima rinascesse dal corpo martoriato, corpo che torna a vedere la luce della vita, della speranza e della libertà. La gogna è tolta. La vita vi viene restituita, ma spesso non per pietà o benevolenza, ma perché qualcun altro ne ha bisogno per essere mondato delle sue colpe, nella stretta dello strumento che rappresenta le fauci dell’ignoranza e della stupidità.

È un trattamento che meriterebbero gli ambasciatori di guerra, ma che invece subirebbe solo un ladro di bambini. Sono sopravvissuto per miracolo all’ultimo impietoso abbandono nella stretta di quell’arnese procuratore di sofferenza, ma nonostante abbia passato un’altra volta quello che ho descritto, non sono riusciti a farmi cambiare nemmeno un capello.

Da quest’ultima volta ho compreso però, che restando ferma come le stelle fisse la verità, non potendo loro cambiare, e non potendo cambiare nemmeno io, non avrò modo di vivere in pace se non lasciando gli uomini alla loro barbarie.

Però io almeno, lontano da tutti, continuerò a essere me stesso.