Racconto di Angela Potente

(Seconda pubblicazione)

 

 

Qualcuno un giorno le aveva detto che il silenzio non era altro che l’assenza del rumore. Ed era quello che Claire cercava di sperimentare ogni volta che si tuffava in mare. Restava con la testa sotto fino al limite possibile, finché non sentiva i polmoni bruciarle nel petto. Cullata dalla corrente, con gli occhi chiusi e l’acqua a riempirle le orecchie come ovatta, cercava di mettere a tacere le urla che in contrasto ai suoi desideri le scoppiavano nel cervello.

Ogni giorno, da quella sera in cui il silenzio le era stato imposto da una mano traditrice mentre le uccideva i sogni, quel rituale era diventato la sua ancora di salvezza per restare cieca e sorda al mondo e alle sue ingiustizie. Almeno per quei lunghi minuti in cui riusciva a trattenere il respiro.

Cercava di resistere quanto più poteva. Perché appena riapriva gli occhi tutto le si riversava nuovamente addosso come una valanga provocata da un sasso piccolissimo.

Era stata ritrovata come un sacchetto di abiti vecchi buttati in un angolo. Si era sentita scuotere da una spalla, nel cercare di aprire gli occhi si era accorta di essere in grado di poterne aprire solo uno a fessura attraverso cui aveva visto un sorriso. Aveva cercato di capire cosa il sorriso le stesse chiedendo, ma era riuscita solo a richiudere la fessura e a ricadere nel buio.

Quando aveva ripreso conoscenza era stata investita da luci talmente accecanti che si era convinta di essere morta e di trovarsi nell’aldilà. In un enorme sforzo si era resa conto dove si trovasse: una stanza d’ospedale. Attutite da una porta arrivavano delle voci. Con estrema lentezza aveva iniziato a cogliere tutti gli altri rumori che la circondavano – il bip del macchinario che le avevano collegato, lo sgocciolio di un lavandino nascosto da un paravento – poi fu assalita dall’odore di disinfettante che sembrava ricoprire ogni superficie.

Richiamando a sé tutte le sue forze si era sollevata dal cuscino e aveva premuto il pulsante che avrebbe avvertito qualcuno che lei ancora era lì, ancora esisteva, ancora era viva.

La porta si era aperta con un leggero stridore ed erano entrate due infermiere e un medico. Le avevano sorriso. La prima infermiera che era entrata le aveva chiesto come si sentisse. Ed era stato in quel momento terrificante che si era resa conto di non riuscire più ad articolare le parole. Come se tutte le urla che le erano state impedite quella maledetta notte le si fossero bloccate come pietre aguzze nella gola, impedendole di parlare ancora. Cercò con ogni sua fibra di far affiorare alla bocca il fiume di parole che sentiva ribollirle in petto ma più ci provava più non le riusciva di produrre alcun suono.

Ridurre qualcuno al silenzio è un modo di dire nell’immaginario collettivo. Ma qualcuno c’era riuscito davvero. Lei era stata ridotta al silenzio.

Nei giorni che erano seguiti le avevano spiegato che era stato lo shock ad averle provocato quella forma di mutismo. A lei pareva solo di impazzire.

Esistono differenti silenzi. C’è il silenzio santifico dei monasteri e delle chiese, il silenzio della natura un attimo prima che si scateni la tempesta, il silenzio dei teatri quando si placa il mormorio e si spengono tutte le luci in attesa che si apra il sipario, il silenzio delle stanze dei bambini dopo averli messi a dormire. Ma quel silenzio era solo una dolorosa conseguenza di un atto preciso compiuto da un essere umano. Claire era stata ridotta al silenzio da qualcuno che aveva creduto una persona amica, prima che si mostrasse nelle sue reali mostruose sembianze. La psicologa che le avevano consigliato in ospedale le aveva raccontato il mito di Filomela a cui il suo aguzzino aveva tagliato la lingua per impedirle di raccontare le violenze a cui l’aveva sottoposta. E le aveva spiegato come, nonostante tutto, Filomela fosse riuscita ugualmente a raccontare al mondo la sua storia, tessendola in un ricamo. E di come gli Dei l’avessero alla fine trasformata in usignolo, l’uccello dal bel canto.

Una mattina, mentre guardava fuori dalla finestra i passanti che correvano in ogni direzione come formiche impazzite e con la radio accesa, si sorprese a cantare. La voce era tornata così. Si stupì di sentirsi, non si riconosceva, i danni alla gola di certo influivano, ma non era solo per quello, era il timbro che non le apparteneva più. Quasi fosse la voce di un’altra donna. Ma in fin dei conti non lo era forse? Un altro essere, trasformato, sconosciuto, che doveva imparare nuovamente ad apprezzare e amare.

Si vestì velocemente, l’appuntamento con la psicologa incombeva e voleva raccontarle con la sua nuova voce come si sentisse, chi si sentisse adesso. La dottoressa la accolse con il suo solito sorriso di circostanza e la sua affettata cortesia e in Claire qualcosa si bloccò, si ritrovò a pensare a cosa dire a quella donna austera che l’aveva sempre guardata con sospetto e decise in quell’istante di continuare a non parlare. Il silenzio, adesso, sarebbe stata la sua protesta, il suo personalissimo atto di ribellione contro quel mondo in cui le vittime non sono mai abbastanza vittime, in cui le domande sciocche, umilianti, a cui aveva dovuto rispondere, “alla festa aveva forse bevuto un po’ troppo? Lo aveva provocato in qualche modo? Forse inconsciamente era possibile che gli avesse mandato il messaggio sbagliato?” ancora le bruciavano addosso.

Dopo soli dieci minuti, in cui non aveva smesso un attimo di fissare un punto imprecisato alle spalle dell’analista, si era alzata da quella poltrona, che a ogni seduta trovava sempre più scomoda, ed era uscita dallo studio.

Appena varcato il portone aveva iniziato a correre, correre sempre più forte, sfinendo i muscoli, sentendoli gridare per lo sforzo e finalmente aveva iniziato a urlare.

Urlare tutto il suo sdegno e la sua rabbia. Non avrebbe trovato conforto in quella stanza, né in altre. Ma ora sapeva. Sapeva che, come Filomela, avrebbe trovato il modo di raccontare la sua storia. Ma lo avrebbe fatto a modo suo.

E forse avrebbe trovato pace.