Racconto (Saggio) di Salvatore Enrico Anselmi

(Prima pubblicazione)

 

 

A tentoni procediamo nell’oscurità e a tentoni, inciampando nei nostri piedi e in quelli degli altri, incontriamo scontrosi misantropi, ascoltiamo buffonerie a effetto, tracciamo un giusto segno. Abbracciando spalle candide e sorridendo a chi ci sorride capiamo forse di essere vivi.

Tracciamo una linea ansata e ampia, ad ampia curvatura, e guardiamo a quella curvatura che ci separa ma allo stesso tempo sembra unire il nostro margine, il nostro suolo, la nostra zolla, sulla quale abbiamo affondato il piede, a quello ancora lontano.

Al limite del visibile la linea fluttua tra i vapori all’orizzonte e il dubbio che quello sia davvero, anche oggi giorno perfetto in algore saliente, l’orizzonte a cui ambire, verso il quale avanzare.

Tentiamo la strada della pianura infinita e calda, torrida come un sermone infuocato d’ira, velenosa come il livore sedizioso di chi ci vorrebbe mortai innocui, ma si nasconde dietro l’algido falso sorriso a dentiera sguainata e occhio lubrico.

Tentiamo la strada lucida come la stria tracciata dallo sguardo luminoso in perenne cerca dell’assoluto lontano e del vicino limitrofo, contiguo, allineato alla nostra ombra senza che questa lo sappia e senza che noi stessi lo sappiamo.

Talvolta ci accontentiamo di poco e talaltra desideriamo ancora, qualcosa sul ciglio che splendeva quando eravamo lontani ma da vicino s’è rivelato soltanto un grosso pezzo di vetro, una bottiglia abbandonata, una piccola pozzanghera che rifletteva la luce.

La luce riflessa inganna, come coloro che millantano d’essere corpi emittenti, radianti e non semplici epigoni, superfici di rimando e replica del primo raggio filtrato.

Per anni ci siamo dibattuti, abbiamo studiato, lavorato, scritto, appreso e insegnato quello che abbiamo appreso in origine e lungo la strada. Abbiamo fatto questo o qualcosa che gli somigliava da vicino. Ma lo studio e l’apprendimento non valevano molto se affidati solo alle buone intenzioni, ai buoni propositi, all’entusiasmo di stendere i filari alla base del muro che, per essere davvero tirato su come si deve, innalzato all’istmo apicale, allineato lungo la striscia alta dei conci in fila lungo l’abbrivio del raggiungimento, dovevano essere in realtà affidati al mentore generoso, all’architetto geniale, al sovrintendente abile e scaltro dei lavori. Non avrebbe contato troppo che l’impasto fosse quello giusto affinché l’impasto stesso producesse buoni mattoni prodotti e sagomati per sostenere. L’importanza reale risiedeva tutta, e in esclusiva, nella rilevanza del mentore. Allora sì che avremmo potuto raccontare la storia del caso, del fortuito, fortunato sovrapporsi, allinearsi di pianeti, al congiungersi secondo una conformazione fausta e proficua. Ce lo saremmo raccontati tutte le notti prima di dormire, prima di cadere nel sonno ci avremmo creduto. E l’avremmo raccontato anche agli altri.

Ma gli allineamenti fortuiti non esistono. Non sono mai esistiti. I congiungimenti casuali non si sono mai congiunti. La perfetta linea che eclissa la luce e la disvela dopo qualche minuto di buio, abissale e notturno, la luce che torna ad abbacinare gli occhi creduli dei benpensanti sono tutti annessi ben oliati di un disegno pensato e voluto, tracciato da chi s’è fatto comprare in un giorno temperato di mazzette facili, da chi ha distribuito in un tiepido pomeriggio di buste scivolate nel cassetto, durante un giorno di donativi eccedenti l’ordinario, durante il giorno della stipula di un servaggio, a stagione o avita, a seconda dell’ambiziosità dell’impresa e del beneficio. Forse con dolore profondo personale. Forse dopo aver affittato qualcun altro che si prestasse. Forse dopo aver procurato la bella, o il bello di turno, pagati perché ci stessero.

È un periodo, questo, di fervente, alacre spirito d’impresa. Nascono nuove società o aziende già avviate vengono ristrutturate per assecondare gli aggiustamenti e le evoluzioni del mercato. È il periodo delle I.I.A. riunite, delle I.C.C. a responsabilità limitata, degli S.Pro.Ma.Co. e delle So.No.S.F.E.N.V.I.

I.I.A.- Impresa per l’intorbidamento delle acque; I.C.C.- Impresa per la corruzione continuativa; S.Pro.Ma.Co.-Studio di progettazione del malcostume.

So.No.S.F.E.N.V.I. Società non lo so fare e non voglio imparare.

Eravamo creduli e ingenui. Creduli che il merito avrebbe avuto la meglio e ingenui nel continuare a crederlo per lungo tempo.

La ricetta più esiziale che sia stata mai congeniata.

Mentre credevamo, altri poltrivano e mentre poltrivano, col curriculum più vuoto e floscio di una sacca vuota per mancanza di idee, sì insomma gli indifendibili, si procuravano padrini, santoni, guardaspalle, infilavano nel portafoglio tessere opportune e stracciavano quelle inappropriate, sconvenienti o soltanto inutili. Perché al momento giusto, il mentore santo, corrotto da un abbonamento al ristorante, ogni sera alle 20 ultimo tavolo in disparte per non dare troppo nell’occhio, avrebbe spergiurato e firmato che un capitolo, due capitoli, una sezione insignificante, scritta a fatica, con la stessa fatica che si prova nel defecare in piena stipsi cronica, valeva invece quanto un intero tomo, uno studio critico autentico. Il raccolto deietto durante una pausa della stipsi valeva esattamente per quello che era, un terroso e secco cilindro, anemico di informazioni, smunto e tetro, che voleva apparire arguto ma sempre esito da periodo ondivago di stipsi rimaneva. Malgrado ciò il cilindro scintilla ora, placcato d’oro, all’interno della teca con tanto di cartiglio sulla porta che ne decanta la caratura purissima e lo splendore proprio.

Mentre credevamo, la mala scuola, spinosa come la malapianta, prosperava abbarbicata al palo sul quale arrampicarsi sicura. I cattivi maestri producevano pessimi allievi, quelli pronti a calpestare e calpestarsi a vicenda, a corrompere e ritirare la mano, a sparlare di mammà e papà, mentre papà lavorava sodo per mettere da parte i denari e mammà preparava manicaretti succulenti da servire usando il servizio buono, quello che tra sottopiatto e piatto piano, tra piatto piano e fondina porcellanata conteneva più di un lenzuolo in cartamoneta.

Mentre credevamo, l’ateo entrava nel seno curiale e, recitando a bocca contrita il salmo del pentimento, malediceva col pensiero l’anello da schiumare di saliva e la sacra pantofola da baciare. E mentre costruiva una bibliografia, che battezzava ragionata perché per stilarla ci aveva pensato su a lungo, tentava senza successo di parlare per farsi capire da tutti e non solo dai suoi più vicini corregionali, conterranei, compaesani, produttori delle stesse inascoltabili cacofonie.

Mentre l’ateo converso entrava nel seno curiale scriveva storielle pruriginose delle quali si compiace ancora. Da qualche tempo è passato dalla sola scrittura all’applicazione pratica della scrittura nella vita. In tal modo vita e arte hanno cominciato a combaciare in modo perfetto, in perfetta, osmotica simbiosi, come nei migliori casi da manuale. E l’ateo converso se ne compiace ancora, perché, mentre squadra il mondo con gli occhietti furbi da mustelide aggressivo, che tenta di moderare gli istinti nella vita di tutti i giorni, in realtà, muovendo le orecchiette intorno, passandosi gli arti superiori sul capo per accarezzare le migliori idee da assecondare, guarda il mondo con disprezzo. Disprezza il mondo e lo irride perché vede che, nel tentativo di ingraziarsi il suo appoggio, gli si prostra senza capire quello che dice e quello che fa. Il mondo, tuttavia, non sa che la proscinesi, riverente e profonda, non gli porterà alcunché perché l’ateo converso, a sua volta, disprezza chi lo incensa ma presta credito e si prostra soltanto di fronte a chi potrà beneficiarlo e a nessun altro.

A forza di inchini, baci dell’anello, lodi infondate ma proclamate a gran voce, pacchi dono elargiti in orario lavorativo, con l’ansia di sviare la curiosità altrui e nascondere la carta regalo nella borsa mentre scende la rampa principale, si è ingobbito, gli si è storta la bocca in una perenne smorfia difficile da mimetizzare malgrado la mimica o l’applicazione dei più raffinati rimedi cosmetici. Anzi, l’unghia smangiata per il livore, la bocca storta per aver prodotto la consueta infamia verbale si storcono di più a forza di esercizio. Quella stortura nel portamento e sulla faccia si sono sedimentate come immagine della menomazione corrotta del pensiero, come una lettera scarlatta. Sono uno specchio, una cartina tornasole, un segnale d’allarme, un segnacolo di decadenza. Ma pochi lo sanno, molti simulano di ignorare perché la consueta commedia che usa canovacci consolidati da tempo possa andare in scena anche oggi. In barba al deuteronomio pestato dagli anfibi che riescono a respirare dalla cannula lunga tenuta fuori dalla melma mentre espandono larghe bracciate in stile libero.

Saltimbanchi e giullari azionano clavette, roteano palle in equilibrio, si coprono di cappelli a sonagli e nascondono lo sbrego che portano in faccia con maschere di carnevale deformando lunghi nasi di cartone con il porro sulla punta.

Pullulano sulla scena quotidiana della Corte dei miracoli come i mostri di Bosch, di Brueghel e dei fiamminghi più visionari che hanno popolato la terra con le peggiori apparizioni da incubo notturno.

C’è chi salta senza molle sotto i piedi, chi canta senza accompagnamento e spartito, chi impazza sulla ghiaia della pista montando il cavallo sottratto stamattina di sotto al fantino patentato, chi scrive sotto dettatura, chi grida e canta senza avere voce, chi predica senza essere stato interpellato, chi asseconda mellifluo, chi si oppone solo per partito preso, chi strilla solo perché grazie al cielo è pazzo, un pazzo vero.

Il mio vicino s’è calato in testa un cilindro e sul naso un paio d’occhiali, sul mento una barba posticcia e, confidando nell’irriconoscibilità, compirà tutte quelle azioni che, sullo scranno più alto e dal podio dell’oratore, ha sempre condannato bilanciando il braccio e l’indice alzato con postura da retore.

«Questa sera si replica! A grande richiesta si va in scena. Prezzi popolari e cotillons per tutti. Ingresso gratuito per donne e militari. Posti solo in piedi, non vi accalcate!»

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