Racconto di Maria Letizia Pecoraro

(terza pubblicazione – 3 gennaio 2020)

 

Percorse gli ultimi chilometri a passo d’uomo, lungo quella strada larga e senza curve, che pareva essere nata solo per condurre in quella casa.
Fermò l’auto un po’ più indietro, per avere il piacere estremo e dolente di farsi scivolare sotto i piedi gli ultimi metri, proprio come allora, quando arrivava lì davanti con il cuore in gola ed un sorriso largo da regalare e si fermava a riprendere fiato, appoggiato al tronco amico di Golia, il gigante verde che dava il benvenuto, un olmo senza età e di grande bellezza.
Era davanti a lui, adesso, un enorme scheletro di mattoni erosi ed ingrigiti dagli anni, gli occhi bui delle finestre senza più persiane; perfino il grande albero pareva in fin di vita, seppure ancora eretto sopra le sue radici.
Cascina de’ Gai, si leggeva a stento, sulla targa incrostata, un tempo tenuta lucida a specchio.
Giulio strizzò forte gli occhi per ripulirli delle lacrime che ne velavano lo sguardo, da quindici anni ormai.

Si scrollò, alzò il collo della vecchia giacca blu che indossava ancora, di tanto in tanto, quando i ricordi premevano forte e il desiderio di un altro abbraccio diventava lancinante. Allora tirava fuori quell’indumento fuori moda  in cui ci stava ancora tutto, che lo cingeva come fossero braccia note e risentiva quelle mani poggiate appena sotto il collo, ad alzare il bavero, mentre guardandolo negli occhi gli diceva ogni volta: “Che bella questa giacca!”
“Ti piace?” rispondeva lui abbracciandola. Ed era subito la sinfonia di una canzone conosciuta a memoria ma pur sempre bella, erano i loro sguardi che si leggevano dentro, sorpassando la banalità di una manciata di parole.

Giulio aveva cinquant’anni e una vita piena quando, nel corso del suo lavoro peregrinante – era capo area nord in un’azienda farmaceutica – era capitato, in una sera di maggio, in quella locanda, appena fuori città. Gli era presa all’improvviso un’antipatia per gli alberghi luccicanti di ottoni e cristalli dove trascorreva le sue notti fuori casa. Aveva letto quel nome in un depliant tra tanti, sopra il tavolino di un bar.
“Strano modo di farsi pubblicità – pensò – chi vuoi che raccolga questo pezzo di carta color seppia?”
Un paio d’ore dopo era lungo quella strada larga e dritta che lo portò in quella cartolina da bar.

Scese dall’auto e abbracciò con lo sguardo quella casa di mattoni ripassati di bianco, vegliata a lato, da un superbo olmo che offriva, generoso, la sua ombra a un paio di tavolini di legno.

Su uno, una donna, appoggiata su entrambi i gomiti, reggeva il mento tra le mani, intenta ad osservare il gran turbinio di fogli davanti a sé.

L’aveva conosciuta lì, in quel pomeriggio di primavera in cui aveva deciso di deviare dal consueto. Poteva avere 40 anni, forse meno, una gran massa di capelli rossi e la pelle diafana che sempre li accompagna. Si fermò a guardarla senza darsi ragione di tanto interesse. Non era da lui, ma sembrava che lei lo attirasse a sé.
Si avvicinò cauto
“Buonasera” disse aspettando i suoi occhi.
“Oh, buonasera a lei” rispose sorpresa e gli regalò un paio d’occhi verde bosco che non sarebbero più andati via da lui.
Si alzò di scatto, lasciando cadere i fogli dal tavolino. Era alta, con un bel corpo pieno da Venere mediterranea e lo guardò dritto negli occhi con un lampo d’ira: l’aveva colta di sorpresa, facendole perdere il filo delle parole che scriveva con furia sui fogli sparpagliati.
“Chi è lei? Ci conosciamo?” cominciò a dire con piglio da guerriera, poi colse quel sorriso accennato con le labbra ma che gli esplodeva negli occhi, e perse le parole.
“Mi chiamo Giulio Riva, non ci conosciamo e non capisco come questo possa essere accaduto”
“Edith Ajello – disse lei – Edith, come la cantante. Mia madre era un po’ stravagante, amava la sua musica e ha pensato che avere intorno una piccola Edith potesse avvicinarla al suo mito”
Fu il loro primo incontro e non sapevano ancora dove sarebbero arrivati.

La rivide nella grande sala da pranzo con il pavimento in cotto e i tavoli vestiti di fiandra candida; era seduta, ancora sola, mangiava con gusto guardando il fuoco acceso nel camino di pietra, nonostante fosse maggio.
Di nuovo le si avvicinò, con un sorriso lieve, come se non ci fosse altro posto dove fermarsi; lei lo guardò e raccolse quel sorriso.

Giulio guardava, ora, quelle mura grigie e pensava con stupore a quanto poco tempo era occorso a quell’amore per nascere e svilupparsi, senza avere terreno dentro cui radicarsi. Già, perché scoprirono quella sera, davanti a quel camino, di avere due vite piene e lontane e di essere in un punto in cui nulla poteva essere cancellato; quella cascina era, per lei, la sosta in un viaggio intrapreso per capriccio, per regalarsi una pausa di silenzio, in mezzo allo strepitio di giornate vissute per altri. Ci era arrivata per caso, raccogliendo un depliant nel bar della stazione: aveva dato un’occhiata a quella fotografia e si era innamorata dell’olmo gigantesco – Golia, lo aveva chiamato tra sé. Aveva annullato la prenotazione dell’hotel a due passi dal centro della città in cui aveva deciso di trascorrere tre giorni in solitudine assoluta, sola con se stessa. Aveva chiamato un taxi che l’accompagnò alla Cascina de’ Gai, mentre si chiedeva se non stesse facendo una sciocchezza.

Quella sera di maggio sembrò essere per Edith e Giulio un disegno tratteggiato dal fato.
Si raccontarono le reciproche esistenze, annotandosi i dettagli, innamorandosi di un guizzo degli occhi, di un paio di riccioli ribelli, delle parole che affrescavano animi vicini e sconosciuti. Si innamorarono, così, perdutamente, in una sera di primavera, al calore di un camino acceso fuori stagione. Si salutarono al mattino decidendo entrambi per una vita già intessuta.

Nessuno dei due credette in quell’addio che divenne nel tempo una consuetudine: la Cascina fu la loro casa, per una, due, tre volte all’anno; per uno, cinque, sette anni, sei mesi e 13 giorni, una vita tratta fuori e vissuta come un sogno, appigliata come il muschio al tronco possente di Golia.
Vivevano a denti stretti e con rigore, in attesa di quelle parentesi in cui si cancellavano le parole spese per raccontarsi al telefono, in lettere infinite, in lunghi silenzi affollati di pensieri.

Come in un vecchio e polveroso romanzo d’appendice si erano ritrovati dentro un amore senza fine e senza meta, senza una casa che non fossero i mattoni della Cascina de’ Gai e il vecchio olmo Golia. Era un amore vissuto con pienezza e fame insieme, come essere rinchiusi in una stanza stretta ma senza un soffitto ad oscurare il cielo. Non fu mai facile eppure fu bellissimo. Credevano di avere innanzi a loro un tempo senza fine, si rimandavano ogni volta al successivo incontro, confidando nell’immortalità di quei battiti arrabbiati o dolci, orgogliosi eppure pronti alla resa.

Una mattina di marzo, insospettabilmente fredda, Giulio si alzò con la certezza che qualcosa di terribile fosse successo. Erano giorni che non aveva notizie di Edith: non rispondeva ai messaggi, alle mail ripetute che lui le mandava. Aveva anche provato, violando il loro codice, a chiamare senza preavviso, ricevendo in risposta una voce registrata che annunciava il cellulare spento o irraggiungibile. Cercò tutte le spiegazioni del mondo, nessuna placava la domanda via via più angosciosa: “Dov’è Edith?”
Accese la tv e intanto cercava un volo per Napoli, sarebbe andato da lei.

Tese l’orecchio al tg che trasmetteva la solita tiritera quotidiana di cattive notizie, quando un nome lo pugnalò.
“Ritrovata cadavere una donna di 45 anni, Edith Ajello…”
Non riuscì a sentire altro, guardava attonito lo schermo della tv, senza riuscire a dare un senso alle parole.
Ritrovata cadavere una donna di 45 anni, Edith Ajello…
Cadavere… Edith… il suo amore, morta! Il suo sole di capelli rossi e selvaggi… spento!
Edith, Edith, Edith! Rispondi!
Di’ a quest’idiota che s’è sbagliata! Edith!
Il silenzio e il tonfo sordo dei battiti del suo cuore impazzito che sembrava uscirgli dal petto…

Molte ore dopo conobbe ogni dettaglio. Anna, l’amica di Edith, l’unica a conoscere la loro storia, lo aveva chiamato piangendo:
“Giulio, Edith non c’è più! Il nostro sole ribelle si è spento”
Era disperata e tra i singhiozzi gli raccontò che Edith era uscita quattro giorni prima, all’alba, per fare una passeggiata. Era inquieta, in quei giorni, lo ricordava bene anche Giulio, diceva di non sentirsi in forma, non dormiva abbastanza.
Non era più tornata a casa e, poiché viveva sola, nessuno per giorni si era accorto della sua assenza, fino alla sera prima, quando un ciclista, insospettito da un mucchietto di vestiti sul ciglio della strada, si era fermato, scoprendo che in realtà era il corpo di Edith, rannicchiato e freddo. Avrebbero stabilito, poi, che un malore improvviso e violento l’aveva costretta a fermarsi e probabilmente la morte l’aveva colta mentre aspettava, raccolta su se stessa, di sentirsi meglio e chiedere aiuto. Il cellulare, cadendo, le era scivolato via dalle mani, lontano perché potesse esserle d’aiuto. Era uscita da casa per sfuggire alla solitudine ed era morta sola, sul ciglio di una strada di campagna, battuta poco e solo da altri cuori solitari.
Giulio non visse per giorni e giorni, chiuso nella casa rimasta vuota.
Era solo, con il suo dolore straziante, con i ricordi bellissimi di lei, seduta all’ombra dell’olmo lontano, vicinissima mentre si stringeva a lui in un abbraccio. Era andata via da lui, lo aveva detto qualche volta; capitava poco prima di salutarlo, dopo le loro ore felici alla Cascina.
“Voglio morire prima io – diceva – non potrei sopportare il dolore di perderti. Morirò prima io, tu sei più forte”.
L’aveva fatto davvero.

Era fermo sul ciglio della strada larga e dritta e guardava quel mucchio d’ossa che era adesso la Cascina, la loro casa. Sembrava essersi arresa anche lei, orfana del grande amore che aveva visto nascere, che aveva cullato e custodito.
Giulio s’accorse di non riuscire a respingere le lacrime che da quindici anni affioravano di continuo.
Pianse per ogni giorno perso, per ogni giustificazione spesa ad arginare un’onda che invece avrebbe voluto che li sommergesse. Si erano trovati senza cercarsi, in un tempo e in luogo fuori dello schema dentro cui avevano disegnato le loro vite.
Credevano di aver scelto, di farlo due, tre volte all’anno, sfidando le consuetudini, la prassi degli amori tiepidi e lunghi.
Si sentivano invincibili, forti l’uno dell’altro.
Pianse ogni lacrima trattenuta, singhiozzò per ogni volta che avrebbe dovuto farlo con lei e per quell’amore prezioso; pianse per il tempo perduto e pianse di gratitudine per ogni istante in cui Edith era stata sua. Restò a guardare ancora la Cascina, accarezzò con gli occhi ogni linea.

Poi chiuse alle spalle una porta ideale, alzò il bavero della giacca lisa, sentì le sue mani ferme e la sua voce.
“Che bella questa giacca”
Si lasciò abbracciare e andò via.