Racconto di Alessio Moa

(Prima pubblicazione 3 luglio 2019)

 

La strada in terra battuta terminava d’improvviso dopo una lunga curva a gomito. Cespugli e sterpi si riprendevano il loro spazio vitale, invadendo la carreggiata e nascondendo alla vista la grande radura. La vecchia villa sembrava sbucare dal nulla appena si oltrepassava quella barriera verde che ostruiva la via. Due ragazzi procedevano a fatica, superando i rami caduti e i viticci secchi e spinosi.

«Ci siamo. Non può che essere quella: non ci sono altre ville in zona.»

La ragazza annuì. Si guardò la mano, dove il solco impresso dal coltello che aveva cercato di respingere le decorava il palmo con un fregio indelebile.

«Me l’aspettavo più grande; ha solo due piani.»

Un vento timido ma freddo si insinuò tra i capelli, scompigliandoli. La cicatrice che le tagliava in due la guancia sembrò pulsare. Svelta si portò la mano al viso, nascondendola. Sentiva le lacrime di nuovo affogarle gli occhi.

«Fa freddo» disse il ragazzo, «cerchiamo di entrare. Ti racconterò una storia.»

Senza una parola lo seguì lungo l’esile sentiero che ora si apriva tra i cespugli, mentre il vento le asciugava le lacrime.

«La chiamano la casa del risveglio. Dicono che qui, proprio in questa villa, soggiornò Johann Sebastian Bach, poco prima di morire. Lipsia è solo a qualche decina di chilometri. Era in convalescenza reduce da un’operazione agli occhi che lo aveva reso praticamente cieco. Il giorno della sua morte si svegliò al mattino e vide di nuovo la luce: i suoi occhi si risvegliarono, la bellezza invase la sua mente ancora una volta. Si commosse osservando le sue mani illuminate dal sole. Allora si mise al clavicembalo, giocò con le note, compose una nuova meravigliosa melodia per celebrare la rinascita dei suoi sensi. Ma la sera morì senza poter terminare la sua ultima, grande fuga, la quattordicesima. Era costruita su un tema di sole quattro note: si bemolle, la, do, si.»

Ormai stavano attraversando la radura; l’erba si alzava rigogliosa tutt’intorno e un sentore di primavera si insinuava tra loro, portato da quel vento insistente.

«Si bemolle, la, do, si» continuò il ragazzo, «in notazione italiana. Oppure in notazione tedesca: b, a, c, h!»

Erano arrivati alla villa cadente; i muri carichi di storia racchiudevano un edificio dimesso, nient’affatto elegante. La porta principale era ancora integra, sprangata dall’interno.

«Perché la chiamano la casa del risveglio?»

«Ecco, sembra che nella villa, probabilmente nei sotterranei, ci sia una stanza dove a volte si può ascoltare una melodia che viene dal nulla. Una melodia meravigliosa. È la quattordicesima fuga di Bach, la versione completa che lui non ebbe il tempo di terminare.»

Le fece un cenno, la spinse a seguirlo; costeggiando i muri portanti giunsero dietro l’edificio, dove la pesante porta in legno appariva parzialmente scardinata, semiaperta.

«Qualcuno a Lipsia, colui che mi ha raccontato la leggenda, mi aveva parlato di questo ingresso di servizio; se entriamo da qui, possiamo proseguire nei sotterranei.»

La ragazza sospirò. Mentre lui era intento a forzare la porta lo osservò di nascosto. I lunghi capelli neri gli ricadevano sulle spalle mentre i raggi di un pallido sole accendevano d’argento il piumino che lo riparava dal freddo. Un cavaliere senza armi che narrava storie incantate.

«È tutto molto affascinante. Ma non mi hai ancora spiegato perché la casa si chiama in questo modo…»

«Se mai sentirai quella melodia, la quattordicesima fuga di Bach, allora una parte di te che credevi sospesa, inibita, potrà rinascere, un desiderio dimenticato potrà di nuovo prendere vita, un ricordo doloroso che soffoca la tua voglia di vivere potrà essere definitivamente superato. Così si dice. Vieni entriamo.»

Li accolse il buio. Lei estrasse il cellulare dalla tasca dei jeans e fece luce. Eppure il ragazzo esitò. Lo vide massaggiarsi nervosamente una spalla, poi scuotere la testa.

«Che c’è? Stai male?»

«Non pensavo… non pensavo fossero così bassi questi soffitti. Comunque bisogna scendere quella scala… È da lì che si penetra nei sotterranei. Ma…»

«Tu stai sudando.»

Gli aveva poggiato una mano sulla fronte, preoccupata.

Lui respirava affannosamente mentre le parole si accavallavano violente.

«Ho paura… Una torcia ci voleva, più luce, più luce. Ho questo terrore del buio e dei luoghi stretti e chiusi… Come da bambino, come allora! Non è cambiato nulla. Non l’ho superata, non l’ho ancora superata…»

«Usciamo allora!»

«Io non ce la faccio ma tu devi andare. Non credo sia pericoloso, sai? Ti aspetterò fuori, controllerò che nessuno entri mentre sei dentro. Ma tu devi andare. Esprimi il tuo desiderio. Torna a vivere. Cancella quel bastardo dalla mente, cancella il segno che ha fatto sulla tua pelle, dimentica tutto. Rinasci!»

Respirava ancora a fatica e lei temette che potesse sentirsi male sul serio. Lo rassicurò con un gesto che nella penombra forse lui nemmeno vide e proseguì risoluta verso le scale che si inabissavano nelle tenebre.

Si sentiva turbata.

Da quando era nata la loro amicizia, solo pochi mesi prima, era la prima volta che lo vedeva in preda al terrore. Nemmeno immaginava che potesse soffrire di claustrofobia. Eppure proseguì risoluta.

La brezza che sentiva alle sue spalle la spingeva a scendere quegli scalini ripidi. Respirò l’aria che sapeva di muschio e mistero, ascoltò i battiti del suo cuore che sembravano rimbombare, come amplificati da quei sotterranei bui.

Quando le scale finirono fece qualche passo ancora, poi si fermò. La luce del cellulare d’improvviso si spense. Tutto divenne nero. Il buio la circondava completamente. Aveva paura. Come immobilizzata, attendeva. Era terrorizzata eppure non osava muoversi.

E poi avvenne.

Il display del suo smartphone si accese di nuovo, mentre dai piccoli altoparlanti una melodia eterea si diffuse nell’ambiente. Fugava le tenebre, rischiarandole. Fuggiva dal tempo. La Quattordicesima, meravigliosa fuga di Johann Sebastian Bach aleggiò ovunque.

Quando le note finirono di danzare rincorrendosi e l’eco di quell’aria maestosa terminò di risuonare, lei piangeva ancora. Ma erano lacrime di pura gioia. Si voltò e quasi di corsa prese a salire le scale, senza considerare che sarebbe potuta cadere, senza pensare a far di nuovo luce con il cellulare.

Uscì dalla villa: il sole la accolse e il vento le afferrò i capelli. Lui la guardò e il suo sguardo si rabbuiò un poco. Era calmo ora. Le si avvicinò e la abbracciò. Le sussurrò poche parole.

«Hai pianto… Non è successo, vero? Solo una leggenda, solo una bellissima, stupida fantasia.»

Le prese la mano e insieme fecero qualche passo verso il sole.

«Mi spiace» disse a voce più alta. «Speravo di aiutarti a dimenticare quello che ti hanno fatto. Volevo cancellare quel segno: se non dal tuo volto, dalla tua anima. Non ci sono riuscito, perdonami.»

«Ti sbagli.»

La ragazza lo guardò. Dentro di sé qualcosa di duro, come un grumo ruvido e opaco, si stava lentamente sgretolando. Sollevò il viso, chiuse gli occhi e si lasciò accarezzare dal vento che continuava a sussurrarle le note di una meravigliosa melodia senza tempo.

 

“Tratto dalla raccolta di racconti “Nove passi nel delirio””