Racconto di Maria Rita Cuccurullo

(prima pubblicazione – 15 luglio 2020)

 

Aveva due occhi azzurri e la faccia tonda color pesca. La ricordo ancora quella bambola che mia mamma mi regalò il giorno del mio onomastico. Era morbidissima e aveva un vestito a maniche corte, a righe bianche e blu. Quella mattina mi alzai più presto del solito per andare a scuola. Era quasi fine anno scolastico. Non mi aspettavo quel regalo, fui felicissima. Mi piacque, moltissimo. Ancora di più lo slancio. Il mio secondo nome non tutti lo ricordavano, mia madre si. Era un po’ come colmare quel grande vuoto lasciato da quell’incognita dalla quale è stato difficile uscire. Lo sarà per sempre! Mia madre, si, faceva di tutto per vedermi sorridere. Ricordo il suo amore. Al di sopra di ogni cosa. Era tutta lì, nei gesti, nei sorrisi, negli sguardi. Quando le chiedevo spiegazioni in merito a qualcosa che riguardasse il passato, ricevevo risposte evasive, imprecise. Ed io lo sentivo, lo avvertivo anche se non volevo approfondire, non volevo ammetterlo, forse per paura di soffrire. C’era intorno a me un alone di misterioso riguardo, cauta riservatezza. A distanza di tempo, capii. I miei avevano creato intorno a me una trama fitta di silenzio protettivo. Uno scudo al riparo di una verità forse dolorosa più per loro che per me. Non doveva trapelare nulla. Ma io lo sentivo, lo avvertivo a pelle, come un abito non mio. Un abito cucito con molti orpelli, pregiatissimo ma senza autenticità. Una normalità che vivevo in maniera serena tra i banchi di scuola, i compagni di giochi e la mia famiglia acquisita. E quel giorno fu davvero speciale. Nel pomeriggio, al ritorno da scuola, mia madre mi fece trovare a tavola il mio piatto preferito. Mangiai in fretta, subito dopo avevamo il treno per Pisa. Dovevamo andare a casa di parenti in campagna. Ero entusiasta. I compiti ormai erano talmente pochi che quell’evasione riusciva a dare ancora più gusto alla passeggiata programmata da qualche giorno. Arrivate in stazione, io e mia mamma, sempre bellissima con i suoi occhi verdi e l’aspetto imponente, ci sedemmo sulla panchina.

Conversavamo piacevolmente, quando all’improvviso, una bambina dall’aspetto trasandato, accovacciata a terra vicino ad un palo della luce, fece per alzarsi. In mano aveva un sacchetto dal quale trasbordavano cenci apparentemente vecchi. La vedemmo con i suoi passi incerti avviarsi verso di noi. Più si avvicinava e più mi fissava. Due occhi meravigliosi, color nocciola, incorniciati da riccioli neri. Guardava me e la bambola che stringevo al petto. Era sola, più si avvicinava a noi e più non toglieva lo sguardo dalla mia bambola. Rimase accanto a noi, ammutolita, con una fissità che mi frastornava anche se l’eloquenza di quello sguardo non mi lasciò indifferente. Aveva messo gli occhi sulla bambola, le doveva piacere proprio tanto. – Io guardai mia madre. – Pensava lo stesso. – Non ha una bambola – mi sussurrò – Le piace la tua! – Ero troppo sensibile per fingere indifferenza e voltare le spalle. – Mia madre mi guardò con aria interrogativa – Pensai – Ho tante bambole, potrei regalargliela, anche se l’ho appena ricevuta. – I miei pensieri ebbero vita breve. La bimba sconosciuta con una prepotenza inaudita, mi strappò la bambola dalle braccia e scappò come un fulmine. Velocissima nel suo apparente tentennare, proprio nel momento in cui stavo realizzando di donargliela. Rimasi basita. Svuotata. Qualcosa che mi apparteneva, mi veniva strappata. Qualcosa di materiale, stavolta! Un sentimento di impotenza, disgusto e solitudine. Mia madre fece per fermare la sua corsa chiamandola – Mia figlia te l’avrebbe regalata. – Non c’erano molte persone, le poche mostrarono la loro solidarietà, ma niente poteva ripagarmi di quel gesto, quella violenza gratuita. Mia madre mi abbracciò forte, mi tenne stretta a se. Non prendemmo il treno. Quella notte non riuscii a dormire. Quel volto silenzioso, ambiguo mi inquietò per un po’ di tempo. Nessuno avrebbe potuto restituirmi la bambola. Soprattutto nessuno avrebbe potuto restituirmi la gioia di quei momenti vissuti il giorno del mio onomastico.
Una fanciulla difficile con una sofferenza profonda lasciata a sé stessa. Pensavo – Magari, la mia bambola l’aiuterà a sentirsi meno sola! – I giorni successivi bastarono a ridarmi la serenità che la mia solitudine mi regalava in quell’avventura in cui la vita nelle sue mille insidie, le sue mille meravigliose aspettative, può condurre. Oltre le mie incertezze, c’erano altre fragilità. Quelle che non scegliamo, quelle che si creano, quelle che tolgono il sorriso o lo regalano per sempre! Quel sorriso che appare sul volto e chi ti ama vuole sempre vedere. Lo stesso sorriso che può esprimere quel qualcosa che prima di arrivare al volto passa per l’anima.