Racconto di Silvio Fazio

(Sesta pubblicazione)

 

La casa dove ho abitato da bambino era in un condominio di nuova costruzione assegnata a mio padre come ufficiale dell’esercito. Il quartiere, chiamato “Rione delle Rose”, si trovava allora ai margini della città, bisognava fare un po’ di strada a piedi per arrivare al capolinea dell’autobus più vicino: il numero 4.

Oggi il rione è nel pieno centro della nuova zona residenziale, ma allora era quasi in mezzo alle campagne.

Ricordo che a volte all’alba mi svegliava il suono delle campanelle delle pecore, che venivano a pascolare nel prato di fronte, le potevo scorgere dalla finestra della mia camera, con la luce rosa pallido del sole radente sulle loro schiene bianche di lana.

Il condominio era circondato ancora da orti e da campi e mia madre spesso mi mandava a comprare la frutta e la verdura da un contadino, zu Paolo, che aveva il suo orto proprio dietro casa. Zu Paolo, spesso sotto un albero di fico a riposare, nove volte su dieci mi diceva: “Cuogghitili da sulu”( raccoglieteli da solo). Io allora seguivo la voce di mia mamma che mi raccomandava: “Controlla bene i pomodori, quelli per salsa, belli rossi, e quelli un po’ verdi per insalata, e assicurati che le zucchine lunghe abbiano ancora la peluria, sono quelle più fresche”. Per me era quasi un’avventura e una vera soddisfazione quando mi sentivo dire che ero stato bravo.

L’abitazione era situata in un complesso di tre palazzine di quattro piani ciascuna, delle quali una destinata interamente alle famiglie della Guardia di Finanza; nelle altre due abitavano famiglie di impiegati di stato e professionisti.

La parte più bella era il cortile interno tra le palazzine, con aiuole di palme, piante di ibiscus, pomelie e buganville, con ampi spazi ideali per noi bambini dove potevamo giocare, correre e nasconderci.

Di tutti i condomini che hanno abitato nella mia palazzina, ricordo in particolare quelli che avevano esposto al portone d’ingresso una targa che ne indicava l’attività.

L’Ing. Urso riparava piccoli elettrodomestici di tutte le marche e borbottava sempre contro la cattiva politica e la scarsa intelligenza dei vari governanti. Era un vero ingegnere e lavorava più per una propria sfida personale con l’elettromeccanica che per i soldi: la sua era una vera passione. Non si dava mai per vinto e le ore che impiegava a risolvere un problema tecnico non venivano messe in conto.

C’era poi un gioielliere. In realtà era un orafo, che si divertiva a creare piccoli oggetti “artistici”, ma che non riusciva quasi mai a vendere.

Il pittore, che si vantava di gestire un’associazione artistica e una scuola di pittura, era un tipo strano: vestiva sempre in modo eccentrico, da dandy. Mia madre mi ha sempre proibito di entrare nel suo studio, forse perché la sua scolaresca era formata spesso da una sola e appariscente modella.

Da ultimo ricordo, la sarta, Antonietta, vedova di guerra che ha rivoltato e cucito varie volte i miei abiti e quelli dei miei fratelli e sorelle più grandi. Cuciva sempre con un gatto rosso accovacciato ai suoi piedi: la sorprendevo a volte mentre gli raccontava la storia del suo amore perduto. Ma il suo pregio più grande era che Antonietta fosse la mamma della bambina più bella che io avessi mai conosciuto: Rita. Era una bambina timida ma tosta, riservata, ma nello stesso tempo gentile e determinata. Per lei era sempre ora di merenda o colazione, perennemente affamata; indossava degli abitini che le confezionava sua madre e che la avvolgevano come petali di rosa. Insomma: era la mia compagna di giochi preferita ed io ne ero pazzamente e segretamente innamorato. Ci vedevamo spesso in cortile con tutti gli altri bambini, ma io cercavo sempre di stare accanto a lei: per giocare ai giochi che sceglieva lei, correre dove correva lei, nascondermi vicino al suo nascondiglio o fare finta di non riuscire mai a scovarla. Il gioco preferito da entrambi era quello del “campanone”. Ero abilissimo nel tracciare per terra, con un sasso di gesso, la griglia del gioco. A volte, non so quanto per caso, ci trovavamo in cortile da soli ed allora era una gara a chi fosse più bravo.

Era una sfida senza “prigionieri”, tirata sempre fino all’ultimo, facevamo scommesse i cui pegni erano un cavallino di legno, la testa di una bambola che muoveva ancora gli occhi, cuscinetti a sfera (allora andavano di moda tra i ragazzi: oggetti ricercatissimi), biglie di vetro e figurine.

Un pomeriggio, ricordo che Rita indossava un vestitino rosa, sfidandomi mi propose un premio particolare per il vincitore: “Se vinco io mi dai un bacio tu, se vinci tu, te lo do io”. Parole che mi stordirono, confusero la mia mente e, insieme al mio cuore, mi fecero tremare anche le mani e le gambe. Giocai tutta la partita non sapendo bene se cercare di vincere o di perdere. Qualunque fosse stato l’esito, sarebbe stato per me l’apice dei miei desideri e la cosa più bella che io potessi desiderare era l’attesa di quel bacio, dato o ricevuto. Il sole stava tramontando, fino all’ultimo la partita fu in bilico e quando Rita lanciò per l’ultima volta il suo sasso bianco sul riquadro per terra, chiusi gli occhi e strinsi i pugni e desiderai con tutte le mie forze che il tempo si fermasse.

Chi si trovasse a passare ancora oggi in quel cortile al tramonto, nel Rione delle Rose, e guardasse bene con gli occhi della fantasia, potrebbe scorgere due bambini che giocano al campanone: sono immobili, la bimba accovacciata ha appena lanciato il sasso bianco che è lì, fermo a mezz’aria e lui, il bambino, in piedi di fronte a lei, che aspetta, ancora.

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