Racconto di Silvio Fazio

(Terza pubblicazione – 20 maggio 2021)

 

 

 

“JUMPER 21” non rispondeva ormai da mesi.

L’esplorazione di quella parte della costellazione era stata fino ad allora senza problemi e senza alcun rischio e aveva portato a un altro grande successo.

Era stato individuato, infatti, un pianeta che finalmente, più di ogni altro, aveva caratteristiche molto vicine a quelle della Terra. Era stato chiamato SPES 4115.

Gli altri pianeti colonizzati dall’uomo avevano presentato difficoltà: per la composizione dell’atmosfera, per la scarsità di acqua e per le specie animali indigene presenti.

Tra l’esultanza scientifica generale, Jumper 21 era stato lanciato alla scoperta di quel sole e di quel pianeta e, fino alle ultime comunicazioni, tutto confermava le più ottimistiche previsioni degli esobiologi.

L’atterraggio su Spes 4115, avvenuto in una zona di quel mondo dove la luce della stella stava per finire, era stato regolare e morbido.

L’equipaggio aveva annunciato l’avvicinamento della notte sotto un cielo di stelle che erano state descritte come incredibilmente fitte e brillanti dopo il tramonto.

Poi più nulla, nessun bip, nessun segnale, nessuna onda di frequenza. Tutta la missione sembrava inghiottita in un silenzio profondo.

Ma la Terra non voleva rinunciare a quel pianeta così promettente ed inoltre desiderava conoscere la sorte della missione.

Era stato così deciso di inviare un’altra astronave: Jumper 22 con il compito di ricerca e salvataggio del precedente volo.

Per diminuire il rischio di perdita di vite umane, un solo uomo costituiva l’equipaggio di quella missione, scelto tra i volontari.

Il suo nome era David, di origine irlandese, alto, robusto, con folti capelli che davano sul rosso e grandi mani capaci però anche di lavori delicati e precisi.

La sua nave si avvicinava lentamente al pianeta, quasi con circospezione, con molta attenzione e tutto sembrava dannatamente facile, normale, tranquillo.

David compì due volte il giro intorno al meridiano, dove si sapeva fosse atterrato Jumper 21, esplorando minuziosamente tutte le zone possibili e finalmente individuò la nave nel mezzo di un boschetto multicolore vicino la riva di un fiume e atterrò in prossimità.

David controllò tutti i parametri. Ognuno degli strumenti confermava le previsioni: gravità, temperatura, umidità, percentuali di ossigeno e carbonio. Aspettò comunque di essere fuori dall’astronave per togliersi lentamente il casco: l’aria era respirabilissima, pura, profumata.

Comunicò poi alla base il ritrovamento, le coordinate precise, e tutte le sue prime impressioni e trasmise alla base tutti i dati scientifici.

Gli fu chiesto di mantenere costante la comunicazione e di segnalare immediatamente qualche anomalia, di lasciare accesa la piccola telecamera fissata su una sua tempia. Se qualcosa fosse sfuggita a lui, non sarebbe sicuramente sfuggita agli uomini della base.

L’ispezione a Jumper 21 si rivelò infruttuosa, era tutto in ordine, nessun segno d’impatto o di urto grave, nessuna avaria ai sistemi di controllo e comando, ma dei sei uomini d’equipaggio nessuna traccia, le tute e i caschi erano ordinatamente abbandonati vicino alla scaletta che andava alla porta della nave, come del resto aveva fatto anche lui.

David cominciò allora a compiere dei giri concentrici intorno a Jumper 21 allargando sempre di più il raggio di azione. Nulla: solo vegetazione, piante di tutte le dimensioni e con fiori bellissimi che si muovevano a una brezza leggera.

Gli alberi, di colori diversi, intrecciavano i loro rami e sembrava che si scambiassero le foglie per comunicare e per creare caleidoscopi in continuo movimento e il fruscio prodotto suonava come un’arpa lieve e lontana, o come accordi di un’orchestra che si preparava a suonare.

Era come camminare in un Eden che ti sorprendeva continuamente e che ti stordiva per le tinte e per le note. Anche i passi che calpestavano le foglie cadute facevano scaturire musiche abbozzate, era come camminare sui tasti di un pianoforte o sulle corde di uno strumento.

I colori poi lentamente si attenuarono, le ombre degli alberi si fecero più lunghe: il sole di quel pianeta stava tramontando, sorgevano le stelle di quella galassia ad annunciare la notte: una notte profonda e smisuratamente bella.

David, ormai, decise di non proseguire nelle ricerche. Era troppo lontano dalla nave per tornare indietro e poi era pervaso da un senso di nostalgia di cose mai provate, di dolcezze dimenticate, di desiderio di pace, di serenità, di bellezza.

L’aria era mite, era stanco, si sedette sull’erba soffice, comunicò con la base, poi staccò i contatti.

Guardava l’orizzonte che cambiava continuamente limiti e colori, con le linee delle alture azzurre, verdi, color oro.

Gli parve di sentire ancora una musica, come una tenera ninna nanna e si abbandonò piano piano al sonno, quasi ipnotizzato dal variare continuo del numero delle stelle che sembravano muoversi come note su un pentagramma di uno spartito invisibile.

Si risvegliò, lentamente, sentiva il sole riscaldarlo e l’aria scivolargli tutta intorno al corpo con una sensazione sconosciuta, strana, ma molto gradevole.

Cercò di stirarsi per togliersi di dosso quel senso d’intorpidimento che provava. Alzò le braccia: due grandi rami carichi di foglie rosse si mossero verso il cielo in mezzo ad una chioma anch’essa rossa e sentì il proprio corpo vibrare verso l’alto, ma piantato come un tronco nella terra dalla quale attingeva nutrimento e linfa vitale.

Allora David istintivamente, come fosse lì da sempre, intrecciò i suoi rami con quelli degli alberi vicini e si unì al loro coro che ora percepiva chiaro, forte, meraviglioso.