Racconto di Anna Maria Bonfiglio

(Terza pubblicazione)

 

 

Era bastato il gesto.

Il dorso della sua mano destra aveva sfiorato la mia guancia. Un gesto delicato, quasi timido, che non poteva dirsi neanche carezza. Uno sfioramento lieve, su e giù sulla pelle, quasi una foglia che staccandosi dal ramo indugia nell’aria perché non conosce il posto dove si poserà. Vicini e lontani, ci guardavamo negli occhi in silenzio, mentre ancora la sua mano scivolava sul mio viso, ed io mi sentivo nuda e vulnerabile, esposta a quel gesto che mi inteneriva e mi riportava dolcezze perdute.

Lasciarsi andare, scrostare la ruvida scorza nella quale il passato mi aveva rinchiusa, dimenticare gli anni, le situazioni difficili; dimenticare l’abbandono, la paura, il dolore, tutto ciò che mi aveva relegato in un angolo della vita, rintanata, incappucciata, con i gomiti alzati ed i pugni stretti alle orecchie per non sentire nessun richiamo.

La sua mano si attardava sul mio viso in gesto di tenerezza. Muto, solo i suoi occhi castani parlavano, chiedevano risposta. La sua bocca socchiusa aspettava d’incontrare il mio fiato.

La mia mano si mosse verso il suo volto, lo sfiorò; le dita si imboscarono fra i peli della sua barba, salirono a circumnavigare i contorni delle labbra, si diressero verso il lobo del suo orecchio. La bruna cartilagine mi suscitò il desiderio di un piccolo morso. Con tutte e due gli indici disegnai un cerchio attorno ai suoi occhi che lui languidamente chiuse.

Stavamo l’una di fronte all’altro mentre il silenzio permeava l’aria.

 

Buio.

Un velo di buio steso sul mio corpo. Rifiutato, nemico a me stessa, un corpo che nascondevo, che avvolgevo nel primo panno a portata di mano per non sentire l’algida carezza della solitudine. Dai muri trasudava silenzio. Solo un cane abbaiava nel cortile, alle sette in punto di ogni sera. Anni. Tempo passato a segnare di sé tutto il bello che avevo avuto nel cuore. Tempo senza ritorno. Al suo insensato fluire mi ero consegnata senza amore, senza pietà verso me stessa ed esso mi accerchiava, freddo e indifferente. L’assenza assorbiva ogni energia, mi risucchiava dentro la sua spirale perversa. E risultava vano ogni tentativo di riempirla, quell’assenza, un’inutile prova per far credere a me stessa che esistevo, e che alla fine risultava una ridicola parodia.

 

Era bastato il gesto.

E mi sembrava di averlo sempre atteso. Uno sconosciuto che entrava per la prima volta in casa mia e del quale non riuscivo a diffidare. Quelle sue mani eleganti, dalla pelle scura e sottile, mi davano i brividi. Avrei voluto sentirle su tutto il corpo. Da quanto tempo non provavo questo desiderio? Chiusa nel buio della solitudine, non avevo accolto nessun richiamo, avevo ignorato ogni sollecitazione. Ed ora da questo sconosciuto avrei accettato tutto. Senza riserve, senza esitazione, senza paura.

Le nostre dita si intrecciarono. Lentamente condussi la sua mano sul mio seno e lui diresse la mia sul suo sesso. Non c’era lussuria ma una dolcezza estrema, uno sfinimento. Silenzio, solo i nostri occhi parlavano. Ed era uno struggimento quel volersi senza dirselo, quel cercarsi senza fretta.

Mi sorprendeva il mio arrendermi ai sensi. Una vita vissuta nella convinzione che solo l’amore generasse il desiderio e legittimasse il sesso. Ora tutto si capovolgeva: il mio corpo chiedeva attenzione, il desiderio mi inviava i segnali di una possibilità d’ amore. Che cadessero tutte le barriere, via dalla prigione dei miei convincimenti.

La sua nudità m’intenerì, il suo sesso mi travolse. Il mio sguardo si perdeva nella breve superficie del suo corpo e sentivo che era quello che volevo, quello e niente altro. Le mie mani cinsero il suo collo. I nostri fiati erano vicini. La sua lingua sapeva di mare ed io ne assaporavo il gusto con voracità, in un silenzio quasi mistico.

Dopo sarebbero venute le parole.

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