Racconto di Andrea Galli

(Seconda pubblicazione)

 

 

“Dobbiamo aspettare ancora per molto?”, domandò Scalzi. Come al solito buttava la cenere della Winston sul pavimento, nonostante i tre posacenere che punteggiavano il tavolo verde.

Pavani faceva finta di non vedere. Incassava il dieci percento del piatto, il che copriva abbondantemente il costo di una passata di scopa.

“Esatto, io ho voglia di iniziare. Si era detto alle dieci e mezza e sono già le dieci e trentasei”, fece Di Giacomo, mostrando a tutti il quadrante dell’orologio.

“Diamogli ancora dieci minuti. È uno nuovo, un ragazzino da spennare” li rassicurò Pavani, il gestore della bisca. Il suo bar nella periferia di Varese si trasformava in un circolo per pokeristi dopo le nove di sera. Uno dei tanti circoli clandestini della città.

Nel retrobottega, normalmente adibito a magazzino, erano collocati tre tavoli. In due giravano già le carte.

Gli altri giocatori assentirono: non era la prima volta che un ragazzetto si presentava spavaldo e se ne andava via a testa bassa e alleggerito.

“Il solito stronzetto che ha sempre e solo giocato online” commentò Barletta, detto il Vecchio, con la sua voce gracchiante da cinquant’anni di fumo, prima di andare a pisciare.

Erano in sei quel venerdì. Si entrava con cento euro e c’era la possibilità di un rientro. Un bel piatto, rifletteva ognuno dei giocatori.

Alle dieci e quarantuno minuti il ragazzino bussò alla porta sul retro del locale. Proferì la parola d’ordine e Diop schiuse la porta quanto bastava per farlo passare.

“Buonasera, mi chiamo Fabio”, esordì entrando e infilando gli occhiali da sole.

Tornato che fu Barletta, Pavani raccolse i soldi, distribuì le fiches e presentò i giocatori.

La partita iniziò bene per Di Giacomo, che con due full vinse le prime due mani.

D’Agostino era il più nervoso: lasciò due volte pur avendo delle carte discrete e riempì le pause ingollando tre cognac.

“Vedo”, chiamò il ragazzino.

“Anch’io”, fece Scalzi. Si tolse gli occhiali da sole e fissò negli occhi il pivello.

“Colore”, dichiarò Fabio Montante, mostrando le carte.

“Fanculo”, ribatté Scalzi. Si accese una sigaretta continuando a tenere i suoi occhi azzurri infitti in quelli del ragazzo.

Alle undici Severin era già uscito definitivamente vanificando il dispendioso rientro. Non era la sua serata.

All-in”, fece D’Agostino.
Anche lui era già uscito e rientrato. Ora, in un lago di sudore aromatizzato al cognac, si giocava il tutto per tutto. Era la sua mano, se lo sentiva. Iniziò a giocherellare con le fiches per allentare la tensione.

Rimasero dentro anche il Vecchio Barletta e Scalzi.

“Andate a farvi fottere, figli di puttana”, urlò D’Agostino mostrando le carte e saltando in piedi.

Poker di cinque, troppo per entrambi gli avversari.

“Io sono fuori”, annunciò Scalzi. Accese l’ennesima sigaretta e rimase ad assistere alla partita. Rimanevano in tre: Barletta, D’Agostino e il ragazzino.

Un’ora più tardi, l’avvocato tentò vanamente un bluff e venne eliminato.

“Vado a cercarmi un altro tavolo da Mezzana” disse, andandosene. Era solito passare la notte facendo la spola tra tutte le bische della città. Tanto, al mattino, lo studio lo aprivano i suoi dipendenti.

“Signori e signori, alla faccia del ragazzetto sprovveduto. Quanti anni hai?”, domandò Pavani.

Il gestore girava di tavolo in tavolo e seguiva l’evolversi delle partite. Al suo fianco, l’inseparabile buttafuori Diop.

“Avevate dubbi? Comunque ne ho diciassette”, sibilò Fabio, secco.

“Pensavo che i bambinetti giocavano alla Play di sera”, fece Scalzi, l’unico eliminato che fosse rimasto a seguire la partita. Non era un giocatore accanito, lui. Ogni tanto, il venerdì sera diceva alla moglie che andava a farsi due birre coi colleghi. Lei ne era quasi contenta: col figlio a zonzo insieme agli amici ed il marito al bar, poteva attaccarsi alla televisione senza essere disturbata fino almeno a mezzanotte.

“Dai vediamo cos’hai e facciamola finita” disse Fabio con tono distrattamente sprezzante. Aveva tenuto d’occhio D’Agostino per tutta la sera ed aveva notato che ogni volta che aveva una mano buona si metteva a far ballare un po’ di fiches. Esattamente come in quel momento.

Ma lui si sentiva imbattibile con quelle carte.

Anche D’Agostino aveva studiato il suo avversario ed aveva concluso che era un gran bluffatore. Un bluffatore che, quando non aveva in mano niente, assumeva un tono sbrigativo, come in quel caso.

“Perfetto, vado all-in. Beccati il mio full di Jack”, gracchiò D’Agostino.

Il ragazzo si sfilò gli occhiali da sole, si stampò in faccia un ghigno di soddisfazione e sbatté sul tavolo un full di re.

D’Agostino bestemmiò, scattò in piedi e calciò la sedia. Uno sguardo del mastodontico Diop fu sufficiente per contenerne l’ulteriore esuberanza.

Il ragazzo passò all’incasso e si avviò fuori dal locale.

“Si può sapere che cazzo ci fai qua, Fabio Montante? È così che passi le serate?” domandò Scalzi.

Camminavano sul marciapiedi, a qualche isolato dal club.

“Quello che ci fai tu, pa. Non ti sei mai chiesto perché non ti ho mai domandato i soldi per la benza del motorino. Comunque ti piace il mio nome d’arte?”

“Questa è l’ultima volta, altrimenti, a costo di sputtanarmi pure io, lo dico a tua madre.”

“Sinceramente…” iniziò Fabio Scalzi, prima di sentirsi afferrare per il cappuccio.

Una zaffata di acido gli invase le narici.

“Sei una merda”, gridò D’Agostino tirando e scuotendo il ragazzo. Li aveva seguiti, quei due. Aveva capito subito dagli sguardi che si erano lanciati che erano in accordo per fargliela. Scalzi era rimasto al tavolo per sbirciare le sue carte e suggerirle allo sbarbato attraverso qualche codice prestabilito. Non era corretto. Livio D’Agostino era un gran giocatore ed un gran signore che non si faceva fottere da nessuno.

Spinse Fabio con tutta la forza che disponeva: una bella rotolata sull’asfalto l’avrebbe aiutato a ficcarsi la lezione in quella zucca acerba che aveva attaccata al collo.

Fabio, colto alla sprovvista, cercò di non cadere, allungò il passo, inciampò e cadde colpendo in pieno il palo della luce che gli sfondò il cranio.

Scalzi vide il corpo di suo figlio rimbalzare e afflosciarsi a terra esamine. Le dita gli si fecero insensibili. La sigaretta gli cadde a terra lentissimamente.