Racconto di Marco Giono

(Prima pubblicazione)

 

«Ora Vorrei Tornare», Vincent Van Gogh

 

«Ti prego non mi costringere a farlo, non ho più l’età per certe cose».

Teo accompagnava la sua lamentela con una mano che sventagliava nel vuoto, come a scacciare un’ape in procinto di pungerlo. Passeggiavamo lentamente in un rovente pomeriggio estivo e il mio sguardo indugiava verso le sponde del lago dove sostavano coppiette intente a crogiolarsi al sole, ragazzi di ogni età che si prendevano a pallate e genitori che parlavano tra loro.

«Credimi, fare il richiamo della quaglia è un’arte. Farlo così su due piedi, senza la dovuta preparazione, sarebbe come prendere un panino all’autogrill e aspettarsi qualcosa di veramente buono».

Teo era dotato di una buona parlantina in grado di suscitare un’istantanea empatia, ma stavolta aveva omesso di dire che fare il richiamo della quaglia in assenza di quaglie non era poi molto utile. Tanto più che non gli era stato neppure richiesto.

«Per quale motivo dovrei disturbare le quaglie, sarebbe discriminante nei confronti delle anatre».  Sorrise, forse immaginando quanto potessero essere suscettibili queste ultime.

In prossimità di un chiosco di gelati, a pochi metri dalla spiaggia, Teo si fermò e scuotendo la testa come a scacciare i dubbi che gli avevano impedito di agire nell’immediato, gonfiò le guance, infilò due dita in bocca e volgendo lo sguardo verso il lago produsse un triplo sibilo cadenzato. Ammise subito costernato che, «non è stato uno dei miei richiami migliori, ma dovrebbe comunque funzionare», e strinse le spalle.

In leggera differita si destò in volo uno stormo di anatre, contemporaneamente le oche si innervosirono e i cani incominciarono ad abbaiare. Mentre un gruppetto di bambini rideva. Teo invece continuò a scrutare l’orizzonte: come a cercare le quaglie.  Da lì a poco alcuni signori ci vennero incontro con un passo deciso: dissero che un bambino era stato beccato da un’oca e si trattava del figlio del custode. Teo si scusò dell’accaduto a suo modo: parandosi davanti all’oca in un tentativo parodistico di rimproverarla: «non fare la prima donna che il richiamo era solo per le quaglie».

Eppure il richiamo della quaglia, da solo, non determinò la fine di Teo, ma semplicemente lo rese un ospite decisamente indesiderato proprio di quel parco dove, in qualità di maestro di tennis, aveva insegnato, giorno dopo giorno, per diversi anni gratuitamente ai bambini, in un campo dato in concessione dal comune. E la sua spiegazione era sempre ed invariabilmente la stessa, «Il nostro non è il solito club esclusivo, ma più un discount della socialità», per poi aggiungere sempre più compiaciuto, «e uno sport a basso costo, quello sì, diventa una cosa condivisa da tutti, come piace a me», ma, proprio a causa di ciò, erano iniziati i problemi.

Durante una mezza maratona domenicale aveva indossato un paio di scarpe da corsa trovate nel cestone delle offerte del supermercato: i suoi amici avevano tentato dissuaderlo dall’utilizzarle anche solo in allenamento, ma lui non aveva voluto sentire ragione, alzando la voce, aveva replicato, «la vita come lo sport deve essere accessibile a tutti e quelle scarpe, nella loro frugalità, sono un mezzo… miracolo, credetemi».

Aveva arrancato, incespicando nelle asperità dell’asfalto negli ultimi chilometri della gara, per poi crollare a terra all’arrivo, esausto a causa delle solette che si erano consumate troppo velocemente. Aveva borbottato che era stata colpa dell’eccessivo caldo che avrebbe deteriorato qualsiasi tipo di mescola, per poi ripeterlo a bassa voce più volte, «un caldo, davvero eccessivo, credimi». Il dottore gli aveva consigliato di riposarsi dalle lezioni di tennis per almeno due mesi: la schiena non avrebbe retto quello sforzo. Teo minimizzò l’infortunio e i genitori dei bambini furono dapprima comprensivi, ma a causa dei continui rinvii iniziarono a preoccuparsi: Teo si sarebbe mai ripreso? Le voci di un suo possibile ritiro si moltiplicarono per arrivare ben presto alle orecchie del nuovo assessore. Quest’ultimo ne approfittò per convocare i genitori e illustrare un piano di investimento di medio termine: il progetto di un centro polifunzionale completamente gratuito: «in cambio di pazienza e di un piccolo sacrificio: il campo da tennis sarebbe stato immediatamente ridestinato al calcetto che ha ben altro margine di profitto».

Venuto a conoscenza dell’imminente sfratto, Teo, ancora a letto, imbottito di antidolorifici, telefonò all’assessore, ma la conversazione, non si rivelò particolarmente costruttiva:

«Deve pazientare. Lei sarà di certo una colonna portante del nostro progetto, un centro polifunzionale sportivo all’avanguardia…».

«Non si farà mai, mi creda», replicò Teo, «La pretenziosa artificiosità dei nostri giorni, è come uno di quei tramezzini da supermercato, invitanti ad un primo sguardo, ma in realtà buoni solo a stare in frigo ad ammuffire… nel frattempo, che fine faranno i miei allievi, ammuffiranno anche loro? Chi penserà al loro benessere psico-motorio? Dove andranno quando il lago ghiaccerà?», l’assessore divertito, «lei è un poeta e come tale tende al disfattismo, ma il nostro partito, vuole il bene di tutti e ci mettiamo la faccia in ogni cosa che promettiamo», Teo, ormai persa la pazienza, lo apostrofò, «lei, per primo, dovrebbe promettere di meno, mi creda», quindi riagganciò.

Non lo rividi per diverso tempo e al telefono non rispondeva, quando in quel rovente pomeriggio estivo trovai Teo seduto su una panchina del parco intento a leggere uno scontrino e senza troppi giri di parole mi raccontò, «Quel cesso di Carmen mi ha lasciato per i punti del supermercato: ho beneficiato involontariamente di uno sconto che non mi sarebbe spettato, ma si è trattato semplicemente di un malinteso, credimi: ho tirato su la tessera di Carmen e alla cassa non mi sono reso conto dell’erronea sostituzione; anche per via degli antidolorifici… mi rendono poco lucido», aveva chiosato come infastidito, soggiungendo a bassa voce, «davvero poco lucido, devi credermi».

Tentai di indagare se non ci fosse stato dell’altro. Biascicò che, «pensa di essere troppo matura per me. E poi si è lamentata per qualche mio sonnellino di troppo, l’ultimo la scorsa settimana al cinema: ma quella storia di anelli e nani era comunque troppo lunga e poco plausibile, e stavolta non puoi non credermi».

Teo scosse la testa e si alzò con una certa energia: voleva fare una passeggiata distensiva. Per qualche istante parve rilassarsi, come se si fosse consegnato alla rassicurante famigliarità di quel parco, quando all’improvviso la sua attenzione fu catturata dall’intenso blu cobalto di un martin pescatore, che in quella calura gozzovigliava appollaiato su un ramo. Così iniziò a parlare concitato di quaglie e di come lui conoscesse la loro lingua, «credimi, sarei in grado persino di invitarle a cena,» solo che di lì a poco si verificò l’incidente dell’oca.

Il figlio del custode ne uscì praticamente illeso, ma il padre si sentì imbarazzato per l’accaduto, come se fosse messa in discussione la sua professionalità, come se non fosse in grado di proteggere la sua famiglia. Adirato ci rimproverò per poi accompagnarci all’uscita del parco e lì incrociammo l’assessore che ci salutò lanciandoci un bacio con la mano. Teo perse così vivacità nello sguardo, e incominciò a ripetere una sequenza di parole incomprensibili come se si trattasse di un mantra, quindi prevalendo l’istinto su qualsiasi abbozzo di residua razionalità: scattò in avanti, afferrò l’assessore per il collo, per poi prenderlo a testate.

Quando lo raggiunsi, Teo era inginocchiato accanto al corpo inerte di quello. E solo nel momento in cui un rivolo di sangue colò da una ferita apertasi sulla sua fronte si accorse della mia presenza, quindi volgendo lievemente il capo verso di me, disse, in modo pacato che, «sarebbe stato da matti non farlo, credimi».