Racconto di Stefano Stanzione

(prima pubblicazione – 29 giugno 2020)

 

 

PRESENTAZIONE

“Ana” sta per “Anoressia nervosa” ed è il tema centrale del racconto. Il disturbo psicologico qui assume una connotazione quasi divina, per Luna, la protagonista. Un regno di luce e pace, dove la felicità è incarnata dal fine supremo: perdere peso. Ben presto, il sogno si trasforma in un incubo e quel mondo al quale Luna ha consacrato la sua anima, diviene un inferno dal quale è impossibile fuggire. Verso il finale, anche se vittima consapevole di una progressiva autodistruzione, Luna ricorrerà ad una strategia per tutelare le sue coetanee. L’idea del racconto nasce da un caso di cronaca che vede al centro della vicenda una diciottenne, ideatrice di un blog, attraverso il quale dispensa consigli abominevoli per aiutare le ragazze a dimagrire. Qui è incarnata da Nia, personaggio di pura invenzione. I suggerimenti espressi da Nia, al contrario, non sono frutto di fantasia ma corrispondono ai medesimi illustrati dalla diciottenne di cui sopra, pubblicati su articoli on-line. A queste si aggiungono ulteriori affermazioni, estrapolate da gruppi what’s app, creati da altre adolescenti. Tutto il resto è di carattere puramente fittizio, asservito alla funzione della metafora horror, il cui scopo è raccontare una discesa negli inferi, da un punto di vista psicologico.

 

 

Ho paura.

Di nuovo.

Credevo di aver vinto, di essere guarita. Di essere perfetta. Ma non è così. Sono tornata indietro, vittima di un sadico replay. Mi piacerebbe continuare a mandare avanti il nastro, vedere la pellicola di nuovo scorrere fluida, nel proiettore. Ma non ci riesco. E la cosa mi sta uccidendo. Soprattutto, perché sto perdendo Nia e tutte le mie sorelle. Non siamo ancora arrivate al punto di rottura ma sento che siamo vicine.

È solo colpa mia.

Se non avessi raccontato nulla di questa creatura, né a lei, né alle altre, forse tutto sarebbe rimasto come prima. Sono sempre stata un asso, a mentire. Da quando ho incontrato Nia, poi non ne parliamo. Ma un conto è indossare un’altra pelle, con quelli che stanno fuori, un conto è fingere con Nia e le altre. Non è forse questo, che fanno le sorelle? Non sono complici? O forse una per tutte, tutte per uno, diventa una scemenza, quando si tratta di questioni differenti?

Avete capito bene. Racconto balle. Non me ne vergogno. È un’altra forma di potere che esercito su me stessa e su quelli di fuori, come la mia famiglia e, soprattutto, mia madre. Un esempio? Eccolo: compro il kit kat al bar sotto casa, insieme al cartone di latte. Non appena rientro, infilo il cartone nel frigo mentre mia madre pulisce il lavello con lo sgrassatore. Mi guarda, senza dire nulla. Il solito sguardo indagatore che mi scava dentro e che brucia come un serpente di liquore. Poi vado in salotto e accendo la tv. “Vinci e sbanca” è già iniziato da un quarto d’ora. Adoro i quiz show e i blue game. Azzecco tutte le risposte. Mio zio Mirko, il fratello di mamma, dice che ho un gran cervello, che dovrei partecipare ad uno di quei programmi, così guadagneremmo tutti una barca di soldi. Mi piace. Perché mi fa sentire importante. Ma da quando conosco Nia, dei quiz show non me ne frega più nulla. Conta solo il mio rapporto con lei e con le mie sorelle. Il nostro legame e, soprattutto, la nostra missione.

Sto divagando.

Dicevo: “Vinci e Sbanca” è già iniziato. Sono convinta che mamma, riconoscendo la voce di Claudio Mattoccia, il presentatore, abbia un tuffo al cuore, tanta la gioia di sapere che sto recuperando le vecchie abitudini. Difatti, sparo a palla il volume, proprio perché voglio raggiungere lo scopo. Trattengo a fatica una risata. Dopo qualche secondo, riabbasso il volume. C’è un altro suono che desidero lei riconosca: quello della confezione di kit kat mentre la scarto anzi, la squarcio. Ci metto la foga necessaria perché il cuore di mia madre stavolta esploda come una scatola di pop corn, tanto che lo zio Mirko sia costretto ad accompagnarla al pronto soccorso. Sulla cartella clinica, il medico di turno deve scrivere: “Attacco cardiaco dovuto ad eccesso di felicità.” Resto sintonizzata su “Vinci e Sbanca”, fino all’ultimo. Per fortuna, il divano è posizionato di spalle, rispetto alla cucina. Se mia madre dovesse affacciarsi, non si accorgerebbe che, in realtà, sto con gli occhi ficcati sul cellulare. Mi sono connessa su what’s app e sto raccontando della mia performance a tutte le mie sorelle. Nia riempie la chat di faccine sorridenti, con le lacrime. Le mie sorelle, in chat mi definiscono “Genio”, “Eroina nazionale.” Di tanto in tanto, lancio occhiate furtive, tanto per vedere se mia madre fa capolino, dalla cucina. Colgo la sua ombra, una, forse due volte. Tengo lo smartphone sulle ginocchia, la confezione lacerata del kit kat sul tavolino in vetro. La piazzo nell’angolo che sporge, oltre il divano, in modo che sia ben visibile. Non so dire se, effettivamente, mia madre abbia notato la confezione. Ma di certo lo farà, dopo che avrò spento la tv e sarò filata di corsa in camera mia. La modalità non è fondamentale. Ciò che conta, è l’aver raggiunto il mio scopo. Lei deve notare, quella dannata confezione, aperta come un guscio vuoto. E deve sorridere. Perfino commuoversi.

A questo punto, voi direte: “Dunque, il kit kat lo hai mangiato.” BEEEP! Risposta sbagliata! Ventimila euro, signori! Ventimila euro! Un calcio alla fortuna! Le barrette di kit kat stanno tra le mie dita. E quando inizio a messaggiare in chat, le mie dita si sono richiuse in automatico, spappolando quello schifo. Nia si preoccupa e anche le altre. Temono che ceda alla tentazione. Mi scrivono in coro: “Va bene, Luna però non fare cazzate! Allontana da te, quel veleno! Non perdere tempo!” Una volta in camera, apro la finestra e getto la poltiglia di sotto, nel cortile. Prendo in pieno Rico, il gatto di Patrizia, l’estetista di mamma che abita nella scala accanto, al primo piano. Patrizia lo lascia sempre gironzolare, nel tardo pomeriggio e quello, puntualmente, si accascia con la sua ciccia pelosa sul cofano della Matiz di Roberto Seta, il commercialista che vive al quarto piano. Seta va fuori di testa. Odia qualunque cosa che abbia più di due gambe. Quando viene investito da quella polpa, Rico fa un balzo e caccia quel tipico gridolino strozzato che vomitano i gatti, quando si azzuffano. Tutto questo, non prima di aver strofinato quella massa marrone sulle mie labbra. Il tocco finale, qualora mamma fosse colta dall’impulso di entrare di colpo in camera mia, per avere la conferma dell’avvenuto miracolo. Non resisto alla tentazione così mi scatto un selfie, pubblicandolo in chat. Si scatena il putiferio. Che ridere! Poi rassicuro tutte quante. Nessuna se la prende a male. Perché mi trovano simpatica. Già, sono la sagoma del gruppo, quella che riesce a far divertire. Anche questo, è merito di Nia. Grazie a lei, ogni giorno scopri qualcosa di te stessa che ti piace e che mai avresti pensato di possedere. O forse, sta già rintanata dentro di te. Ma nessuno ti concede l’opportunità di esternarla. Con Nia, invece, tutto è possibile. Ti si aprono mille opportunità, il mondo che prima ti deformava il cuore, adesso ti appare come una materia da plasmare, in modi e forme sempre nuove, sempre più belle. Non sei più una vittima. Ti trasformi nell’artefice del tuo destino. Hai il potere. Il potere è la chiave di tutto. E non scaturisce da qualche formula idiota o da qualche sentimento melenso. No. Il potere viene custodito da Ana, di cui Nia ne è la sacerdotessa. Noi è così che la definiamo. Per questo nessuno può fare più a meno di lei, una volta entrata nelle sue grazie. Nia non è solo un’amica fidata. È una guida. Per me, per tutte noi. Ma il fatto di essere la messaggera di Ana, non vuol dire che tratti il prossimo con sufficienza. Lei è ben disposta, a condividere il potere, ad insegnarti come gestirlo. E per ottenere ciò, è necessario l’impegno e la disciplina. Qualità che fioriscono dentro di te, giorno dopo giorno, nell’attimo in cui segui le regole che Nia profetizza, in nome di Ana.

Custodire il potere. Divenire artefice del tuo destino.

Non essere mai più vittima.

Non essere mai più grassa.

È la nostra missione, quella che ci tiene legate.

“Siate oneste”. Questo è il comandamento che chiude la Bibbia di Ana. Eccolo, il motivo, che mi ha spinto a raccontare loro, di questa entità. Di questo mostro che mi perseguita.

È cominciato due settimane fa, nell’attimo stesso, in cui ho raggiunto i quarantuno chili. Un traguardo che mi ha concesso di ottenere la stima di Nia e l’amore incondizionato di Ana. Sono diventata la sua figlia prediletta, io e poche altre, come Tiziana, la ragazzina di dodici anni che si ficca sotto la doccia gelata, per combattere la Bestia. C’è pure Livia, sedici anni che si tira pugni nello stomaco, quando la Bestia si diverte a stuzzicare le sue viscere. Poi c’è Flora, quattordici anni che tiene sempre legato un elastico al polso e lo fa schioccare, ogni volta che la Bestia tenta di corromperla. Questi sono i comandamenti di Ana, per combattere la Bestia e rispettare ognuno dei precetti, contenuti nella sua Bibbia. Per quanto mi riguarda, non amo questi metodi “violenti”. Preferisco seguire i precetti più “delicati”: compro appositamente abiti di taglie più piccole. Li appendo sulla maniglia della finestra, in modo da poterli avere sempre sotto gli occhi. Se la Bestia prova a tormentarmi, li guardo e penso che potrò indossarli solo quando l’ago della bilancia, indicherà il peso adeguato. Domando perdono ad Ana. Bilancia, devo scriverlo con la “B” maiuscola. Se Nia è la sua sacerdotessa, la Bilancia è il suo divino respiro.

Io, Livia, Flora e Tiziana siamo le nuove elette. La Santa Bilancia conferma per ognuna di noi, quarantuno chili. Alcune sorelle provano invidia e non scrivono nulla oppure si disconnettono. Quella che sta peggio è Laura. Invia un messaggio vocale. Piange disperata. Sono giorni che non si muove dai quaranta quattro chili. È distrutta. Non esce più di casa. Implora Nia di aiutarla, implora tutte noi. Ma Nia si è stancata di asciugare le sue lacrime. “Se non ti schiodi dai quaranta quattro chili, vuol dire che non sei davvero motivata o, peggio, ti sei lasciata corrompere dalla Bestia” le scrive Nia. “Hai forse dimenticato uno dei comandamenti fondamentali? Disponete di tre vite: ogni volta che vi abbuffate, ne perdete una. Quando le perdete tutte, siete fuori dal gruppo.”

Laura riempie la chat di messaggi a raffica, negando il suo coito con la Bestia, promettendo di impegnarsi ma supplicando, ancora una volta, la fiducia di Nia e di tutte noi. Ma continuiamo ad ignorarla. Io non sono da meno. Lo faccio per lei, perché se accolgo la sua disperazione, continuerà a piangersi addosso. E poi, questo è un giorno speciale, il giorno della mia resurrezione. Sono io la star. Ho vinto. Ho vinto contro la Bestia. Soprattutto, ho vinto contro i miei compagni di scuola che ridono di me, bisbigliando fra loro, passandosi foglietti di carta, durante la lezione. Su quei foglietti, c’è disegnato un mio ritratto, con la faccia da maiale e la pancia flaccida. Ora, invece, sono tutti ammutoliti. Mi guardano turbati. Perché mi temono, perché ho dimostrato loro che ho fegato da vendere. Adesso che ho raggiunto questo traguardo, smetteranno perfino di fissarmi. Distoglieranno lo sguardo, provando una vergogna orribile, terrorizzati dalle conseguenze per aver sbeffeggiato una delle figlie predilette di Ana.

Dopo neanche tre giorni, la mia felicità si disintegra in mille pezzi. Sono nella metropolitana, quando la creatura, fa la sua comparsa. Ma, ripensandoci, creatura non va così bene. “Spirito” è la definizione più azzeccata. Una creatura, un mostro, avrebbe un aspetto più definito e rivoltante. Lui no. Da poco prima che facesse la sua comparsa, il mondo attorno è infatti divenuto di un grigio opaco. E da questo non-colore, si è originato lo spirito. Forse, lui stesso incarna il grigio. Scivola come vapore lungo le pareti della metro, attorcigliandosi ai corpi dei passeggeri. Nessuno lo nota, tranne me. Lo spirito aleggia di fronte ai miei occhi, sospeso dal pavimento appiccicoso come una nuvola di fumo. Allunga quelle che sembrano dita che penetrano nel mio cervello. Sento come una scarica di elettricità che mi attraversa il corpo. Le mie budella soffriggono. La mia testa vibra come in un frullatore. Ho come l’impressione che la pelle si scolli dai muscoli, come un post it dal frigorifero. Poi tutto si ferma è il grigio non è più opaco ma più scuro. Guardo le mie mani che ora sono avvizzite. Lo stesso vale per il mio volto e tutto il corpo. Il bulbo sinistro esce dall’orbita e rotola sul pavimento del vagone, i denti divengono gialli, perdo ciocche di capelli a gogò. Il macchinista frena bruscamente così un tipo con la faccia butterata, oscilla nel tentativo di mantenere l’equilibrio. Quando torna ad afferrare la sbarra, ha già schiacciato il mio occhio, sotto la suola dei mocassini. Grido come una pazza, terrorizzata. Ma il mio è un grido muto. Risuona solo nel mio cervello, nel quale lo spirito tiene ancora le sue dita conficcate. Poi, finalmente, quelle spire di nebbia lasciano il mio cranio. La metropolitana riparte ma lui è ancora lì, che ondeggia di fronte al mio volto, divenuto quello di un ciclope. Gli domando chi sia, cosa voglia da me. Uno squarcio si apre, nella parte superiore del suo corpo nebuloso. La fenditura ha l’aspetto di una falce. Sta sorridendo. Maligno. Beffardo come i miei compagni di scuola. Poi, all’improvviso, si tuffa dentro la mia anima, come un demone che possiede un corpo. Ed ora intuisco che si tratta effettivamente di uno spirito maligno. È impregnato di odio. Il grigio scuro mi soffoca, le pareti della metropolitana si deformano come pongo e si mescolano ai corpi dei passeggeri. Diventano un tutt’uno e si stringono sempre di più, attorno a me. Anche i polmoni si sono avvizziti e respirare diventa impossibile. I passeggeri sono diventati carne viva e tremolante. Il demone continua a ridere, nel mio corpo. E la sua risata brucia completamente quel che resta delle mie viscere. Poi un lampo e mi ritrovo in uno spazio angusto. Anche quest’ultimo è grigio. Ma è il colore della terra. Sono sepolta viva. No, non sono viva. Una puzza di carne marcia violenta le mie narici. È insopportabile. Diviene sempre più intensa, tanto che mi vomito addosso. È la mia carne, a puzzare. Sono un cadavere. Tanto inutile che non si sono nemmeno presi il disturbo di infilarmi in una bara. Finalmente, la terra si apre di fronte a me come il Mar Rosso, al cospetto di Mosè. Peccato non riveli una via di fuga da quell’orrore. Mi mostra soltanto altre donne, con il mio identico aspetto. Una di loro mi afferra entrambe le mani e piagnucola mentre il demone, uscito nuovamente dal mio corpo, troneggia alle spalle della donna marcescente:

«È questo, il Regno di Ana! E lui, il suo vero profeta!» Dice, riferendosi al demone.

La spingo lontano da me. Riprendo a gridare, ma il suono della mia voce, ora è un gorgoglio. La terra è penetrata fin dentro l’esofago. Per un attimo, è come se la mia reazione isterica, fosse maggiormente dettata dall’irritazione che dalla paura. Quella donna cadavere è un’eretica, una profanatrice. Come può affermare una roba del genere? Come può sostenere che quell’inferno, sia il regno di Ana e che quel demone bastardo, il suo latore? Gli rispondo che è una bugiarda. Io l’ho conosciuto, il regno di Ana. L’ho avvertito nel mio cuore, dal momento in cui Nia e le sorelle mi hanno accolto ed ho iniziato a seguire la Bibbia. Ed ora che la Santa Bilancia mi ha mostrato la retta via, tutto l’amore di Ana ha permeato il mio animo ed ho compreso che, il suo regno, è un luogo di luce, di pace infinita. Ma la donna cadavere ormai è lontana, come tutte le altre. Le mie parole diventano un bisbiglio, un lamento che scivola dalle mie labbra e che spinge la tipa anziana, seduta in metro accanto a me, a fissarmi perplessa, quasi indignata, di fronte ad una quindicenne che parla da sola. Il bulbo sinistro è ancora nel cranio, la mia pelle ancora incollata ai muscoli, sana e bianca. Lo stesso vale per i capelli e i denti. Le pareti del vagone sono al loro posto, il tipo butterato guarda un video sul display del suo Smartphone, fregandosene del volume sparato.

Era un’illusione.

Un sogno ad occhi aperti.

La metro si ferma alla stazione successiva. Mi faccio largo a spintoni e mi getto all’esterno. La banchina è semi deserta e non so nemmeno quale sia il nome della fermata. Desidero solo respirare, allontanarmi da quel barattolo che oscilla, prima che un’altra orrida visione possa imprigionarmi. Mi siedo sui sedili color arancio, addossati alla galleria e rivestiti da manifesti elettorali. Respiro a pieni polmoni e sono felice di constatare che, ogni cosa, dentro di me, funziona nel modo giusto.

Proprio in quell’istante, qualcuno invia un messaggio, sul gruppo what’s app. Estraggo lo smartphone dalla borsa. È Flora. Dice che domani le tocca il matrimonio di un suo cugino. Flora vive in un paesino del Sud, di cui dimentico sempre il nome. Per la gente del luogo, “strafare”, è la parola d’ordine. Soprattutto, in occasioni del genere. Se non ti ingozzi, vieni considerata una subnormale. Figuratevi il giudizio che possono nutrire per Flora e per quelle come noi.

“Ragazze, vi giuro: se potessi, mi tele trasporterei su Marte” Scrive Flora.

“Pesati prima di metterti a tavola, e subito dopo aver mangiato. Non solo eviterai di mangiare cose superflue ma ti verrà voglia di mangiare meno ogni volta che vedrai che i numeri sulla bilancia crescono” Nia ripete l’ottavo comandamento, a pappardella.

“Il pranzo finirà alle dieci di sera, se tutto va bene. Per quando sarò tornata, avrò già messo su dieci chili!”.

 “A questo punto, ti conviene recitare la parte della maiala. A fine pranzo, corri in bagno, ti chiudi dentro e vomiti tutto J “Suggerisce Tiziana.

“Ottimo suggerimento” Risponde Nia.

Vorrei partecipare alla discussione ma le dita ancora mi tremano e non riesco a scrivere un accidente. Vorrei parlare loro di quel demone, di quell’assurda visione, della blasfemia sputata dalla donna cadavere. Ma, se anche riacquistassi il controllo delle mie falangi e la tachicardia si allentasse, penso che rimarrei ugualmente in silenzio. Ho bisogno di riflettere, di organizzare il discorso. Penso alla Bestia. Che abbia scelto la forma di quel demone, per riuscire, finalmente, a sopraffare la mia volontà? Mi disconnetto e ripongo il cellulare nella borsa. Inspiro nuovamente, chiudo gli occhi e adagio la nuca alla parete della galleria. Arriva un altro treno, la folla si accalca sulla banchina, i passi e le voci che si intrecciano come anguille. Suoni che riecheggiano nel buio della mia testa, in cui ho trovato riposo.

 

Racconto a Nia e alle mie sorelle, quanto accaduto in metro. Giulia e Valentina, un paio di ragazze da poco ammesse nel gruppo, mi sfottono:

“Invece dei maccheroni, si è ingozzata direttamente con la serie di Insidious” Commenta Valentina.

“ Ah! Ah! Perlomeno, ha perduto un altro mezzo chilo, facendosela nei pantaloni” Ribatte Giulia.

“Andate affanculo! “Sbotto.

Parlano fra di loro, come se non esistessi. Per mia fortuna, interviene Nia che ammonisce le piccole stronze. Ricorda loro che tra sorelle bisogna mostrare rispetto. Loro più di tutte, essendo nuove. Nia si rivolge di nuovo a me, comprensiva:

“Rispettare la parola di Ana, richiede un gran dispendio di energie. Senza contare dopo che hai raggiunto l’agognato traguardo. Penso si tratti solo di stanchezza. Prima di andare a letto, mangia il solito yogurt e aggiungi molta acqua. Starai meglio, vedrai.”

“Hai ragione. Grazie, Nia” Rispondo.

In realtà, questa sua ipotesi, non mi ha rincuorata. Lo stress mi sa di banale, di soluzione buttata un po’ lì, tanto per risolvere in modo rapido. Ma lo tengo per me. Lo stesso vale per l’inquietudine che ancora non mi ha abbandonata del tutto, insieme a quella fastidiosa sensazione, come di un qualcosa che si muove nel mio stomaco. La paura sta tornando: che il demone sia rimasto dentro il mio corpo? Provo ad allontanare quella schifosa probabilità. I miei pensieri non mi aiutano, perciò mi rivolgo di nuovo a Nia e a tutte le mie sorelle:

“Ammettendo solo per un attimo che questo demone sia reale, non potrebbe trattarsi della Bestia? Non essendo riuscito a corromperci, sta sperimentando nuove forme.”

Ci tengo ad utilizzare il plurale. La questione riguarda tutte. Non mi va giù che sia solo un mio problema. Giulia non commenta. Valentina si limita a rispondere con una faccina triste, con una goccia di sudore che scende dalla fronte tonda. Può voler dire che sono noiosa oppure che Valentina sia effettivamente preoccupata, di fronte a quel rischio. O entrambe le cose. Scelgo la prima opzione. Non riesce a fare a meno di sfottermi così ricorre all’ambiguità, per evitare che Nia la bacchetti di nuovo.

“Lo sapremo nei giorni a seguire” Dice Nia.

Sono perplessa.

“Cioè?” Domando.

“Se la tua forza di volontà comincia a scricchiolare, allora vuol dire che hai ragione: la Bestia si è evoluta in qualcosa di nuovo, allo scopo di trovare una nuova strada per distruggerci. E pare abbia scelto proprio te, come cavia.”

Mi sembra di ingoiare un porcospino.

“Se così fosse – prosegue Nia – considera questa come un’ulteriore opportunità per dimostrare il tuo coraggio. Meglio ancora, una prova alla quale ha deciso di sottoporti Ana. Se anche stavolta, riuscirai a sconfiggere la Bestia, potresti divenire tu, la nuova sacerdotessa.”

Il porcospino abbandona la mia giugulare. L’ansia prende a copulare con l’eccitazione.

“Dici davvero?” Rispondo, le dita che tremano di nuovo.

Le altre aggiungono commenti e ulteriori faccine ma le ignoro. Sono soltanto macchie sul display. Ora ci siamo solo io e Nia.

“Concentrati sull’obiettivo e segui la Bibbia, con ancora più devozione. Pensa che il destino di tutte noi e del Regno di Ana, è nelle tue mani.”

Un’ondata di orgoglio mi travolge. La paura viene risucchiata dalla soddisfazione. Mi sento come un’eroina di un libro fantasy, con la sua spada scintillante, in groppa al suo unicorno bianco e dalla chioma fluente. Da me dipende la vita della regina e del suo popolo. Se riesco a sconfiggere le tenebre, nei libri di Storia ci infileranno anche il mio nome.

“Sono pronta”! Una risposta secca e decisa.

L’idea che la questione riguardi soltanto me, ora non mi disturba più. Ciò viene rinvigorito dalle decine di emoticon che raffigurano mani che applaudono, miste a frasi di incoraggiamento.

 

È così che è andata la storia.

Ora sono qui, perduta e terrorizzata.

Non ce la faccio.

Ho provato a combattere, davvero ci ho provato.

Ma ad ogni scontro, io arretro di due passi, il demone avanza di quattro. Continua a tormentarmi, nella sua veste di fantasma di polvere. Quel grigiore di cui è plasmato, mi sporca l’anima non solo di paura ma anche di una tristezza e di una solitudine infinita. Una solitudine che Nia e le mie sorelle non riescono a colmare. Questo anche perché mi stanno voltando le spalle. Ci siamo. Il punto di rottura è ad un passo. Il demone si è totalmente impossessato di me. Quel movimento nelle mie budella, è divenuto persistente. Ma quel che è peggio, si manifesta con un brontolio allo stomaco. Dunque, ho ragione: si tratta della Bestia. Perché il brontolio è il suo marchio. Ha tentato di sviare la mia attenzione, grazie alla sua nuova forma e a quelle visioni (che sono diventate sempre più frequenti e orribili). Poi ha deciso, finalmente, di rivelarsi. Può mutare nell’aspetto ma non nel modo di agire. Si è tradito e l’ho scoperto. Ma questo non migliora la situazione. Il brontolio diviene più aggressivo, quando mi trovo di fronte al veleno. Non avete idea quanto sia deprimente, quanto sia doloroso. Impegno, sacrificio, devozione, fatica e ora tutto si è sciolto come burro. Ripenso al giorno della mia vittoria, quando sono entrata nella schiera delle figlie predilette di Nia, insieme a Flora, Tiziana e Livia. Ora nemmeno loro, mi rivolgono la parola. E se lo fanno, è solo per deridermi. A Giulia e a Valentina, non sembra vero. Rinfaccio a Flora e alle altre che mi sfottono per invidia. Non hanno mai accettato l’idea che una come me, avesse guadagnato un posto nel cuore di Ana. E mentre scrivo questo, le lacrime mi squarciano la pelle del viso. Mi rendo conto che loro non sono diverse dai miei compagni di classe, anzi; sono peggiori. Sono delle false. Nia se ne resta in silenzio. L’ultima volta che mi ha scritto, è stato solo per vomitare la sua insofferenza, quando le ho chiesto aiuto, dopo l’ultimo attacco della Bestia:

“Sono stufa, dei tuoi piagnistei. Comincio seriamente a pensare che la Bestia divenuta spirito maligno, le visioni blasfeme sul regno di Ana, siano solo un pretesto. TU VUOI ACCOPPIARTI CON LA BESTIA! Puro e semplice! Non avendo il coraggio di ammetterlo, ti pari le chiappe con queste stronzate!”

Le parole di Nia sono una fucilata nel cuore, anche perché non si è mai espressa in modo così duro e volgare.

“Ti giuro che non è così! È tutto vero! Perché mai, dovrei mentire proprio a te?”

“Ah, non lo so. Resta il fatto che, da quando hai iniziato questa cantilena, hai già consumato due vite. Penso ciò ratifichi le mie affermazioni. Sbaglio, ragazze?”

“Niente affatto, Nia. Hai perfettamente ragione” Ribatte Livia.

“Concordo. È solo una buffona” Aggiunge Flora.

Il dolore inizia a cedere il passo alla rabbia.

“Questa storia non riguarda solo me, riguarda anche voi! Dove cazzo sono finite le belle parole sul rispetto e la solidarietà, fra sorelle? Dove le hai messe, Nia?”

Adesso pure io mi rivolgo a lei, con un tono che mai prima avrei osato. Le dita corrono sui tasti quasi in automatico, pilotate dalla delusione. Proseguo, come un fiume in piena:

“Se è vero che il regno di Ana custodisce la luce, in quanto tale dovrebbe essere lei stessa, l’arma per sconfiggere la Bestia che invece rappresenta le tenebre!”

Nia evita di rispondere. Lascia che siano gli insulti e le battute delle altre, a parlare in sua vece. Il colpo di grazia, viene inferto da Tiziana:

“Luna, per favore! Abbi almeno un briciolo di dignità e ammetti che non ce la fai più e vuoi solo ingozzarti come una scrofa!”

Non c’è più amarezza, né delusione. Solo rabbia e odio. Il demone/Bestia mi ha inquinato per bene.

“Arriverà il giorno in cui sarete voi, al mio posto. E io non vi aiuterò, puttane che non siete altro!”

Detto questo, lancio lo smartphone sulla scrivania. Il portapenne salta per aria, disseminando il contenuto sulla moquette. Poi balzo dal mio letto e corro in cucina. Sono sola. Mamma, quel giorno, sta facendo le pulizie dal signor Fausto, un insegnante di pianoforte con le mani ricoperte dalla psoriasi. Apro il frigorifero. Il veleno si para di fronte a me, cospargendo lo spazio che mi circonda con la sua miriade di odori fetenti. La Bestia se la gode, mi attorciglia le viscere in modo tale che il brontolio divenga un dolore acuto.

«Sono una scrofa? E scrofa sia!»

Afferro tutto quello che mi capita a tiro, senza preoccuparmi di cosa si tratti, né di valutarne la forma o il colore. Le mie mani sono due scavatrici, frenetiche, impazzite. Le dita infilano nella mia bocca i figli del veleno e la gola mi fa male, tanto lo sforzo. Ad un certo punto, avverto come se qualcosa si fosse rotto. Dentro di me, c’è un freddo penetrante, un gelo polare. Sento come se avessi ingerito del cemento armato. Lo stomaco preme, spinge in modo osceno. Comincio a sudare, a tremare. Il mio stomaco sta per scoppiare, ne sono convinta. Dio, che schifosa che sono. Fuggo dalla cucina e mi infilo nel bagno. Mi inginocchio di fronte al water e la rabbia e la follia, se ne vanno assieme al veleno, adesso ridotto ad una poltiglia giallastra. Ho la gola e il petto in fiamme. Le orecchie fischiano come un treno a vapore. La discussione in chat, la mia reazione con Nia e le altre, tutto mi passa davanti agli occhi. Mi prendo la testa fra le mani e scoppio in un pianto violento. Che cavolo ho fatto? Che cavolo ho fatto? Poi la frase di Nia, si conficca nel mio cranio: “Hai già consumato due vite!” Solo ora mi rendo conto della gravità di quella rivelazione. Allungo la mano e afferro la Santa Bilancia che si trova nello spazio tra la vasca e il bidè. Mi sollevo, barcollando. Adagio i piedi sulla pelle della Santa Bilancia. Mantenere la posizione eretta, si rivela un martirio. La testa mi gira, la vista si appanna. Ma non posso crollare. Devo prima sapere! Guardo la Santa Bilancia. L’ago indica quarantatre chili e venticinque grammi. Ricomincio a tremare. Come è possibile? Sono convinta di non aver ceduto alla Bestia. E anche fosse capitato, sono più che certa di aver sputato il veleno, proprio come ho fatto adesso. Ma la Santa Bilancia non mente mai. Ed io non riesco a darmi pace. Forse sono rimasta vittima di un blackout o, peggio, la Bestia ha totalmente preso il controllo non solo del mio corpo ma anche della mia mente! Si è sostituito a me, trasformandomi nel suo giocattolo!

Le lacrime sono diventate acido. Affondo i denti nel labbro inferiore. Poi apro l’anta del mobiletto, sopra al lavello e afferro il rasoio di papà. Nonostante sia coperto di ruggine, mamma non si decide a buttarlo. Tiro su le maniche del golf, scoprendo gli avambracci. Mi affetto la pelle, tanto che i miei avambracci sono due tronchi di sangue. Butto via il rasoio nella vasca e torno in camera mia. Recupero il cellulare. Sullo schermo, adesso c’è una crepa. Per fortuna, la scheda non è andata in tilt. Le icone sul desktop sono ancora tutte lì. Scatto una foto alle mie braccia martoriate. Poi mi riconnetto a what’s app, allego la foto e la condivido nella chat. Dopo qualche secondo, Nia risorge dall’oblio:

“Ti rimane solo una vita.”

Nessun elogio per quella punizione, tanto meno stupore per quel mio gesto che rompe la tradizione con i miei “antichi” metodi. Credevo servisse per ammorbidirla e che valesse più di ventimila “perdonami”, sparati a raffica sul display. Niente. Gelida come un calippo. Penso a Laura e a quella volta che ha implorato aiuto. Laura ha perduto anche l’ultima vita. Non so dove sia, cosa faccia. Sento solo un gran senso di colpa. Vorrei abbracciarla e domandarle perdono, per averla ignorata. Le dita riprendono a muoversi sulla tastiera. E sono tranquilla:

“Conosco la Bibbia, conosco i suoi precetti. E ho già dimostrato ad Ana, quanto sia grande la mia devozione, al di là di questo mio cedimento. Da oggi, posso anche fare a meno di te. Di ognuna di voi.” Mi resta una sola vita? Bene. Questa vita è mia e voglio gestirla come meglio credo. Non attendo la risposta di Nia e delle altre. Mi cancello dal gruppo.

 

Ho compiuto venticinque anni, la scorsa settimana. Ho festeggiato con un ricovero in ospedale. Uno dei tanti. Ho perso il conto delle volte in cui sono andata in coma. Bevo frullati di verdure. Questa è la mia dieta. Sono diventata intollerante al lattosio, perciò addio yogurt. Sono ancora disciplinata, è vero. Ma di Ana, ormai, me ne sbatto. Così come dei suoi precetti, della sua Bibbia e di tutte le puttanate con cui mi ha ingozzato Nia. Ogni volta che mi guardo allo specchio, vedo riflessa la donna zombie che ho incontrato quel giorno, durante la mia visione. Magari quella donna ero io, una me del futuro che ha tentato di avvertimi. Non so dire se il demone fosse reale. A volte, penso sia stato un gioco della mia zucca che stava perdendo colpi. Giorgia, la mia psicologa, condivide in parte questa tesi anche se ritiene che il demone fosse, in realtà, il mio subconscio che tentava di scuotermi, nell’attimo in cui ho oltrepassato il punto di non ritorno: i quarantuno chili. Quel traguardo agognato, la mia dolce vittoria. In quel preciso istante, mi sono ritrovata sulla soglia del regno di Ana, l’incubo di cui è genitrice. Potevo sfuggirle se mi fossi voltata, oltre a piantare in asso Nia e tutte le altre. Invece, ho oltrepassato la soglia. Ed eccomi qui.

Ora non c’è più alcun demone, né alcuna Bestia, né il brontolio. Ma è rimasto il grigiore. Giorgia dice che si tratta della depressione. Sono io che le ho dato questo non colore. Quella donna, quella me del futuro, aveva ragione: il regno di Ana è un inferno con l’abitino del Paradiso. Sono avvizzita, le orbite al loro posto ma scavate, gli occhi due biglie vuote. I capelli sono sfibrati. Quasi tutti i miei denti sono ingialliti. Quelli dell’arcata superiore, iniziano a tremolare. Prima o poi, cadranno in blocco, me lo sento. E non è finita. Le mie ossa vivono a braccetto con l’osteoporosi. Non c’è una vertebra che non sia ridotta come una sottiletta. Gli attacchi di ansia raramente mi danno tregua, sono come lupi che mi sbranano il cuore. Ho perduto il controllo della vescica e la notte mi piscio addosso. È questo il premio che spetta alle figlie predilette di Ana. Penserete che l’aiuto di Giorgia sia inutile, viste le mie condizioni. Non è colpa sua. Lei ce la mette tutta. Il problema sono io. Anche se volessi intraprendere il cammino che Giorgia mi sta indicando, non riuscirei a fare un passo. Ana non mi lascerebbe mai fuggire. Appartengo a lei. Conficcata nel buio del suo ventre, circondata dalle grida di tante altre mie simili, con l’aria che puzza di follia e solitudine. Alzo lo sguardo, alla ricerca di una luce che non trovo mai. Ed è meglio così. Perché vederla senza toccarla, sarebbe una punizione assai peggiore. Giorgia si incazza, quando dico: “Ana”. Teme sia un’altra via di fuga che utilizzo, per non combattere l’inferno. Vuole che la chiami con il suo nome di battesimo: Anoressia nervosa. Le sedute con Giorgia non mi stanno  portando a nulla di concreto, lo so. Ma non voglio perdere il mio unico contatto con l’esterno. Buffo, eh? Prima odiavo quelli di fuori. Adesso, invece, non posso fare a meno di tenermi stretta una di loro.

Mia madre si fa viva una volta ogni tanto, per dare una pulita al bilocale dove mi trovo adesso. Si rifiuta di farmi la spesa. Comprare solo verdure, la farebbe sentire mia complice. Quando è in casa, fa di tutto per non incrociare il mio sguardo. Non posso darle torto. Lo zio Mirko e i miei cugini sono venuti a trovarmi solo una volta. Non biasimo neanche loro. Chi vuole la compagnia di un mostro?

Non ricordo nemmeno cosa si provi, a baciare un ragazzo. Non sono neanche sicura, di aver mai baciato un mio coetaneo. La mia ossessione per Ana, mi ha tenuta lontano da ogni forma di sentimento e di pulsione. Forse avrei avuto qualche chance quando i miei compagni di classe mi dipingevano come un maiale. Dico questo perché ho ritrovato una mia foto, di quei tempi. Ora che la mia mente ha riacquistato un briciolo di lucidità, mi rendo conto che non ero affatto una scrofa. Un pelino in carne ma niente di più. E non mi stava per niente male. Lo pensa anche Giorgia. Dice che mi trovava sexy. Quando penso a queste sue parole, a quella foto, non riesco a smettere di piangere.  La mia esistenza, oggi, è questa. Scivola via lenta, come una medusa trasportata dalla corrente. Non mi spaventa morire. Mi spaventa vivere.

Ma questa sera, penso di aver trovato un modo per dare del filo da torcere ad Ana e al suo inferno.

Sono appena entrata nel blog di tale Desdemona. Leggo rapidamente alcuni messaggi contenuti nella chat, le risposte che fornisce alle utenti. Non mancano i precetti: “Chi è magro è bello e felice, quindi il cibo porta all’infelicità” oppure “Non patirai più il caldo perché potrai indossare i pantaloni corti e le gonne senza vergognarti della ciccia nelle cosce. Poi arriva il pezzo forte: “Potrai finalmente vedere le tue splendide ossa.” Mi bastano dieci secondi, per intuire che Desdemona sia Nia. Deve aver aggiornato il repertorio e cambiato nome. Se non si tratta effettivamente di lei, sarà di certo una sua compagna. Inspiro e mi faccio spazio nella chat. Mi presento rapidamente, utilizzando il nickname “Lady Fuscello”. Un po’ stupido, ma eloquente. Perché? Facile: perché inizio a contrastare le boiate che spara Desdemona/Nia e accenno brevemente alla mia situazione, che voi già conoscete. Sprono le ragazze a fuggire, a mandare a quel paese Desdemona e le boiate che spara, in nome di Ana. Due, forse tre minuti e Desdemona mi ha già bloccato. Mi viene da ridere, soprattutto quando digito su Google “blog pro Ana” ed ecco una sfilza di titoli dementi. Noto anche un buon numero di articoli che denunciano l’inferno di Ana. La cosa mi rincuora. Ma non basta. Da soli, non ce la possono fare. Lo stesso vale per tutte quelle anime che si accalcano nelle chat. Allora penso che Ana sia la Bestia. Desdemona, Nia e tutte quelle come loro, invece, sono i demoni che sguinzaglia sul web. Per combattere un nemico, devi prima conoscerlo. Intimamente. Chi meglio di me, può rivelarsi adeguata, per un simile compito? E ora comprendo che le mie ripetute fughe dal coma, quel rinascere come Frankenstein, sotto gli occhi attoniti dei medici, non è stato un miracolo, né fortuna. È stato il destino. Perché sono l’eletta. Chiudo gli occhi. Le orecchie riprendono a fischiare. Il sangue scorre nelle mie vene come un torrente di soda caustica. Il grigio diventa nero. Ana è qui, accanto a me. La sento. Ha compreso le mie intenzioni e la cosa proprio non le va giù. Mi ripete che non risolverei nulla, che la mia anima continuerebbe a ricoprirsi di letame, nel suo utero deforme. Le appartengo. Per sempre.

Anche se dice la verità, la ignoro. Ascolto un’altra voce, di cui avevo dimenticato il suono melodioso: la mia.

“Concentrati sull’obiettivo e segui la verità, con ancora più devozione. Pensa che il destino di tutte quelle anime innocenti e del Regno della Luce, sia nelle tue mani.”

Accedo ad un forum che glorifica la stronza. Mi sorprende il fatto che ci siano anche dei ragazzi. Inspiro nuovamente, le dita iniziano a danzare sulla tastiera.

Sono pronta.