Racconto di Marinella Giuni

(Seconda pubblicazione – 9 febbraio 2019)

 

Ho atteso per mesi quel regalo che mi avevi promesso!

Arrivavi dall’Università con i jeans scoloriti e strappati, l’immancabile eskimo verde, la cuffia, la sciarpa scozzese.

Ti sedevi giusto il tempo di mangiare un piatto di pasta dopo aver gettato i tuoi pochi libri usati – non servivano, dicevi, c’è già tutto nelle nostre idee – tenuti insieme da una cintura elastica arancione sfilacciata, con il marchio della tua moto preferita sulla fibbia di metallo.

Non servivano i libri, alla tua età; c’erano le idee da difendere, le idee da far conoscere a tutti i costi a chi – diversamente da noi – voleva entrare a scuola anziché uscire in piazza.

Eravamo battaglioni contrapposti; brutti ed un po’ maleodoranti – noi – nelle nostre divise di adolescenti scontenti ed incontentabili e gli altri, un gruppo silenzioso e rassegnato, benvestito, coi libri scolastici sotto braccio, la giornata – forse la vita – scandita da ritmi e obiettivi già delineati.

Io non sapevo bene da che parte stare, ero nella comunità di mezzo ma il fascino era troppo forte; gridare i nostri/vostri slogan al corteo, reggere una bandiera – una qualsiasi bandiera – avere un’idea – una qualsiasi idea –  che sostenesse o sostituisse la nostra identità.

Ed intanto aspettavo quel regalo, frugando di nascosto nelle tasche del tuo eskimo. Pensavo che mi avresti fatto una sorpresa ed ogni giorno mi fidavo di te, della tua promessa!

Dopo che te l’avevo chiesto, mi avevi assicurato che me l’avresti portato e non avevo più avuto il coraggio di chiederlo ancora.

Mi avresti certo ancora risposto che ero ancora giovane, troppo giovane, che dovevo staccarmi dalle cose materiali, assumere un altro vertice di osservazione.

Ma io ero poco più di una bambina e lo volevo!

Perché tu ce l’ avevi.

Un bel paio di Ray Ban azzurri come quelli di Antonello Venditti, con la piccola B L di Bausch e Lomb incrociata in un angolo della lente a goccia; li pulivi con cura con un piccolo panno rosa e li riponevi in un rigido astuccio marroncino, un po’ zigrinato, che si chiudeva con un bottone a pressione, con quella scritta in corsivo di lato.

Un tuo compagno di studi, di ritorno da chissà quale viaggio, te li aveva portati e venduti a poco prezzo. Roberto..chissà con quali artifici era riuscito ad averli!

Ma io da quel giorno non avevo avuto più pace!

E non mi bastava provare i tuoi mentre leggevi, assumendo pose adulte ed intellettuali; non mi bastava neppure indossare quel paio di jeans sbiaditi e stracciati – troppo grandi per me –  che avevi acquistato al mercatino dell’usato.

Sentivo che quel complemento sarebbe stato il mio completamento e pensavo a come sarebbe stato diverso il mio mondo – il nostro mondo – da dietro quelle lenti.

Sai, un pomeriggio, mentre ti aspettavo alla nostra panchina ti ho visto arrivare da lontano; la solita andatura irregolare, con il giaccone – male appoggiato sulle spalle – che dava di te un’immagine asimmetrica.

I tuoi passi erano a tratti più rapidi come se volessi improvvisamente aggredire la strada per poi ritornare lenti e misurati, come se avessi finalmente trovato un equilibrio, la Terra che stavi cercando.

C’era tutto di te in quella camminata; era la camminata di un uomo. Ci ripenso adesso, con un po’ di nostalgia.

Anche io avrei voluto camminare come te, non solo al tuo fianco.

Invece rimanevo sempre indietro!

Più piccola, più goffa…forse perché le mie idee non avevano la stessa vivacità delle tue.

Chissà avrei potuto anche io aggredire la strada, poi rallentare, poi ripartire. Ed invece la mia andatura, vicino a te, è stata sempre lenta ed in ombra: la tua ombra.

E proprio mentre vedendoti arrivare mi lasciavo andare a queste considerazioni, mi ero ritrovata in balìa di pensieri che poi – senza dirtelo – avevo rielaborato ed erano divenuti una poesia.

Pensa…il titolo era “Avessi con me gli occhiali”!

Non l’hai mai saputo, vero?

La riscrivo adesso, chissà se per qualche scherzo del destino la leggerai dopo anni!

Avessi con me gli occhiali scuri/ compagni  di quest’ora/bagnata di pioggia/Avessi con me le palme/le spiagge/di mari lontani/I fuoristrada/di polvere e fango/ed un vento veloce/che corra più forte/anche della mia vita/Avessi con me gli occhiali scuri/compagni di un’ora!

Quel giorno, come molti altri, avevamo passeggiato in Piazza Meardi. Eri appena stato al collettivo studentesco, avevi raccolto tanti consensi, tutti guardavano a te come alla mente più fervida,come all’intelligenza più vivace, come al giovane che voleva cambiare il mondo e che ci sarebbe riuscito.

Erano tanti i tuoi programmi e me li esponevi con il consueto entusiasmo; i capelli spettinati, gli occhi accesi come li sa accendere solo un’idea.

Ed io in quel mondo non mi vedevo, non mi trovavo.

Forse per quello avevo pensato agli occhiali scuri come metafora..qualcosa che potesse separarmi, creare una barriera tra me e ciò che stavo guardando. Avevo bisogno della distanza da te; all’improvviso volevo essere come tutti gli altri!

Desideravo stare con la mia compagna di banco, coi miei libri di scuola, con le cose frivole della mia età. Volevo andare alle feste, al the danzante all’Ariston e ai compleanni, a tutte quelle – diresti tu – banali serate in casa dove Enrico avrebbe fatto la mano morta e dove l’avremmo preso in giro per quel suo parlare sibilante!!

E così, all’improvviso, te l’ho detto. Proprio come lo pensavo, le stesse parole semplici.

Hai provato a dirmi che ero entrata a far parte del Sistema, ma ormai non ti ascoltavo più. Pensavo al mio secondo anno di scuola, mentre tu avresti proseguito l’Università, e sentivo l’ebbrezza di chi prova a camminare da solo per tentativi ed errori.

Per l’ultima volta ti ho abbracciato, ho pianto e ho preso il fazzoletto dalla tua tasca. Mi son ritrovata in mano anche l’astuccio dei tuoi Ray Ban e non ho resistito.

“Posso tenerli?”

Un sorriso, tra la tua barba rossiccia.

Ce li ho ancora, sai?