Racconto di Pierpaolo Chiarini

(Prima pubblicazione)

 

E’ una storia vecchia, di quando eravamo giovani e forti.
Era il tempo della naja ed eravamo nella Brigata che presidiava il confine orientale, in forza al reparto di fanteria d’ assalto più avanzato, quello di punta.
Il nostro compito non era di controllare il confine, a quello ci pensava la Finanza, noi dovevamo solo garantire che qualunque cosa fosse arrivata dall’ altra parte sarebbe stata restituita con gli interessi.
Ma prima ancora eravamo la meglio gioventù, quella che non aveva aspettato gli ordini per mettersi a scavare con le mani tra le macerie del terremoto.
La guerra fredda scottava ancora e per noi ragazzi è stato un lungo viaggio su un pianeta alieno, fatto di gradi e stellette, camerate polverose e brande sfondate.
L’esercito popolare era lo specchio della nazione.
Se ti eri procurato per tempo una raccomandazione potevi sperare di restare vicino casa ma se non eri stato previdente, potevi finire a fare il soldato a nove ore di treno dal tuo mondo, perso in una landa di confine fredda come i suoi abitanti.
In caserma il grosso del lavoro spettava a noi soldati, che per 1000 lire al giorno ci occupavamo di pulizie, manutenzioni, guardie ed esercitazioni.
In pratica la baracca la tiravamo avanti noi e gli ufficiali inferiori, di leva anch’ essi, che per qualche spicciolo in più si davano da fare per complicarci la vita.
I gradi superiori si vedevano poco, in genere non andavano oltre l’ edificio che ospitava il circolo ufficiali, dove serviti da camerieri in papillon elaboravano piani di guerra.
Il loro contatto con la truppa si riduceva in discorsetti e ispezioni a sorpresa, per controllare e punire.
L’ incontro di quel clima autoritario con la frustrazione per quell’ anno di gioventù da passare marciando, produceva la spinta necessaria a mandare avanti la baracca.
E il sistema funzionava, tanto che le cattive maniere dell’ esercito erano riuscite a trasformarci in soldati ben addestrati e capaci di operare al meglio, anche perché se non ti adattavi te la saresti passata peggio.
E poi per noi ragazzi non è che ci fosse qualcosa di diverso da fare in quel gelido paesino, se per l’ esercito eravamo carne da macello per gli indigeni eravamo solo una massa di corpi estranei, che a orari definiti invadeva il villaggio spendendo qualche soldo in cibo e cinema a luci rosse.
Nelle società dove conta più la gerarchia che il merito possono farsi strada dei personaggi meschini, forti coi deboli e che tengono in gran conto gli adulatori, mascherando con l’ arroganza la loro inconsistenza.
Del resto nel nostro bel paese conformismo e ruffianeria pagano spesso, anche se a volte fanno cadere nel ridicolo.
Così capitava che certe mattine dopo l’ alzabandiera il colonnello si mettesse a fare certi discorsi strampalati, in cui finiva per vantare la sua discendenza dai barbari che avevano costretto Giulio Cesare a fondare quell’ avamposto in mezzo al niente.
In realtà il nostro barbaro era solo un impiegato travestito da guerriero, a cui il nomignolo di impotente calzava a pennello.
Unico suo merito l’ averci insegnato l’ arte dell’ indifferenza, lasciando che le sue sfuriate ci entrassero in un orecchio per uscire dall’ altro, senza mai arrivare a sfiorarci la mente.
Come la leggenda secondo cui il ponte di pietra sul fiume che traversava il villaggio sarebbe stato costruito dal diavolo, un lavoraccio fatto tutto in una notte in cambio della prima anima che lo avesse attraversato.
Ma il diavolo aveva sottovalutato gli scaltri locali.
Quella mattina, mentre il prete benediva l’ opera mettendola al sicuro dagli artifizi diabolici il borgomastro aveva liberato un gatto nero, che attraversato di corsa il ponte si era infilato nel sacco del diavolo saldandogli il conto.
Il diavolo aveva promesso vendetta ed era sprofondato negli inferi così di fretta da lasciare aperta un profonda cavità carsica, detta appunto il buco del diavolo.
Oltre all’ ordinario, la mia compagnia forniva al Battaglione anche una pattuglia addetta a ricognizioni e incursioni, un impegno volontario al quale non ci si poteva sottrarre.
Svolgevamo quel servizio agli ordini di un bravo ufficiale, uno dei pochi addetti a quel folle gioco che si era guadagnato la nostra stima trattandoci con rispetto e grazie a noi, l’ impotente aveva collezionato parecchie belle figure coi suoi capi.
Per questo, quando il furiere ci comunicò gli ordini per la prossima uscita restammo sorpresi.
Si trattava di raggiungere un obiettivo all’ interno di una delle grandi zone militari della regione, attaccarlo e distruggerlo, rientrando senza farsi intercettare.
Un giochetto impegnativo ma alla nostra portata, solo che non saremmo andati col nostro comandante, ma con un sottotenente di leva diventato ufficiale per uno scherzo del destino.
Un bravo ragazzo che detestava la vita militare quanto noi ma anche un pericoloso incosciente.
Non capiva che i gradi lo collocavano in un mondo a noi inaccessibile e che per quanto cercasse di trasformare le esercitazioni in scampagnate, ci sarebbe stato sempre qualcuno pronto a riferire tutto all’ impotente.
Non capiva che il modo migliore per sopravvivere alla caserma era di conformarsi all’ apparenza, mettendosi in tasca la propria individualità per sciogliersi nella massa, restando sempre nei confini invalicabili imposti dal gioco.
Un gioco stupido e a volte brutale, ma a modo suo più sincero di quello che ci aspettava al rientro nella vita civile.
Ma a quell’ età la maturità è merce rara e l’ abitudine di fermarsi a fumare uno spinello con dei soldati chiacchieroni era arrivata alle orecchie sbagliate, bollandolo definitivamente.
Ormai l’ impotente non perdeva occasione per umiliarlo davanti a tutti e ad essere di servizio con lui, c’ era la certezza di subire ispezioni puntigliose.
Quell’ incarico sembrava pensato apposta per procurargli una grana da corte marziale e non era difficile indovinare come sarebbe andata a finire.
Il soldato italiano non è uno sprovveduto, conosce la storia ed ha ascoltato i racconti dei nonni, sa che qualunque cosa capiti sarà quello che rischierà di più e se le cose si mettono male, dovrà arrangiarsi per cavarsela.
Per questo, in quell’ anno di bombe sui treni e aerei abbattuti, decidemmo di saperne di più.
Dopo l’ ammaina bandiera la caserma era governata dalla gerarchia parallela del nonnismo, il sistema ideato dall’ esercito per tenere i soldati sempre sotto controllo.
Due mesi per rimediare una branda appena decente, tre per un armadietto in cui riporre le proprie cose, in caserma l’ anzianità di servizio contava e con la nostra autorità di congedanti chiedemmo in giro.
La spiata arrivò da un cameriere del circolo ufficiali, uno che si vantava di sputare tutti i giorni nell’ insalata dell’ impotente, che in cambio di una mezza bottiglia di Porto vuotò il sacco.
Al circolo si era parlato molto della faccenda e lui origliando mentre serviva ai tavoli aveva capito tutto.
La trappola era semplice, l’ azione sarebbe partita col buio e noi avremmo raggiunto il punto di partenza su un camion con i teloni sigillati in modo da disorientarci.
Al resto ci avrebbe pensato una mappa con le indicazioni sbagliate, che invece di condurci all’ obiettivo, ci avrebbe portato nella vietatissima fascia di rispetto del confine.
Così con la faccia sporca di nerofumo e le armi cariche, saremmo finiti dritti nelle braccia dei Finanzieri che quella notte avrebbero pattugliato la zona più attentamente del solito.
I nostri rapporti con le altre divise erano buoni, vivevamo tutti sotto la stessa bandiera e anche i peggiori tra noi salutavano i Carabinieri con una punta d’ orgoglio, ma questa non ce l’ avrebbero fatta passare liscia.
Già vedevamo l’ impotente invocare punizioni esemplari per quello sciatto comandante e la sua soldataglia, che con la loro leggerezza avevano rischiato di provocare un incidente internazionale.
Quindi vista la situazione, decidemmo di parlarne col sottotenente.
Lo avvicinammo mentre vagava per la caserma con l’ aria di un bue che va al macello e dopo una lunga spiegazione, compreso che non aveva niente da perdere, accettò la nostra proposta.
Partimmo il giorno dopo nel tardo pomeriggio.
Eravamo in sedici, con tutta la baldanza della nostra gioventù e i nastri dell’ MG portati alla Pancho Villa, carichi di zaini e voglia di vendetta.
L’ esercitazione doveva essere verosimile al massimo, quindi niente gradi che in caso di cattura avrebbero fatto individuare il comandante.
L’ impotente non ci assegnò neanche la trasmittente, giudicandola inutile perché tanto dovevamo rimanere in silenzio radio.
L’ ordine imperativo e categorico era di raggiungere l’ obiettivo, distruggerlo e ritrovarsi al punto di raccolta senza farsi intercettare.
Passammo le due ore di giri a vuoto a controllare l’ attrezzatura, risistemando i nastri sabotati dagli armieri per incepparsi dopo il primo sparo.
All’ arrivo prima che il camion ripartisse ci eravamo già infilati nella vegetazione e come d’ accordo, il comando della pattuglia era passato in modalità arrangiatevi.
I nostri navigatori erano dei veri scout, si erano preparati annotando su una carta turistica i riferimenti topografici necessari a condurci all’ obiettivo e mentre uno faceva strada con la bussola l’ altro stimava le distanze.
Procedevamo in formazione tenendoci il più possibile al coperto, in testa i navigatori, il grosso al centro e il pastore che sapeva leggere l’ ora nelle stelle a coprirci le spalle.
Sotto la luce azzurrina della luna e senza una mappa dettagliata bisognava muoversi con attenzione, schivando i fossi e i rami che emergevano improvvisi dal buio.
Attorno a noi solo i rumori del bosco, i versi degli uccelli notturni, gli occhi rossi di qualche animale spaventato o il grufolare di un branco di cinghiali che se ne andava per i fatti suoi.
Carichi di rabbia e materiale ci muovevamo in silenzio, col pensiero dietro a qualche ragazza e sempre pronti ad aiutare i compagni.
Eravamo così decisi a ripagare l’ impotente dello scherzo, che se avessimo incontrato veramente il nemico lo avremmo fatto a pezzi.
I navigatori ci sapevano fare e prima dell’alba eravamo a un chilometro dall’ obiettivo, a portata di binocolo dai fari dei genieri che prima di andarsene, stavano dando gli ultimi ritocchi alla scena dell’ esercitazione.
Il poligono era chiuso dalla sera, ma i capi si sarebbero piazzati sull’ osservatorio solo dopo colazione, c’ era il tempo per riposarci nascosti tra gli alberi.
Poi pian piano la luce del mattino aveva riacceso i colori, l’ ora era arrivata.
Ognuno di noi sa cosa fare, mamma NATO ci ha allevati bene e il nostro assalto è rapido ed efficace.
Infiliamo gli elmetti e partiamo in silenzio, col colpo in canna, guidati da cenni precisi ci spostiamo da un riparo all’ altro avvicinandoci strisciando.
Sorprese le sentinelle il fuoco dell’ MG ci copre fino al corpo di guardia, dove sfondate le finestre con qualche raffica le bombe a mano finiscono il lavoro eliminando ogni resistenza.
Colpiamo tutte le sagome, proteggendo i demolitori che stanno minando il traliccio radio, finché lo scoppio delle cariche ci segnala la fine dell’ attacco.
Mentre ci sganciamo coprendoci a vicenda, il riflesso dei binocoli sull’ osservatorio ci conferma che l’ azione è stata seguita dai capi.
Un paio di chilometri ci separano dal punto dove attendere l’ ora del recupero, ma senza più il peso delle munizioni si viaggia leggeri.
Aiutandoci con dei rami penetriamo in una selva di rovi così fitta da scoraggiare un cinghiale, avanzando fino a una cavità invisibile nascosta sotto una falesia.
E’ il nascondiglio scelto dal pastore, un tipo di poche parole abituato a dormire col coltello sotto al cuscino ma un buon compagno, sempre pronto a dividere l’ ultima sigaretta.
Siamo stretti come sardine, con i fucili abbiamo puntellato il muro di rovi guadagnando spazio e gli elmetti strusciano sul soffitto basso, ma siamo introvabili.
Qualcuno striscia fuori e dopo un po’ rientra, informandoci che quelli che ci cercano sono passati oltre lasciando il campo libero.
L’ azione è riuscita alla perfezione e la piccola grotta è testimone della soddisfazione espressa in tutti i dialetti dello stivale, mentre l’ adrenalina accumulata svanisce col fumo delle sigarette.
Tra un paio d’ ore scenderemo al punto di raccolta e c’è tempo per riposare, fare colazione con pane e cioccolata e brindare alla faccia dell’ impotente con le bustine di cordiale.
Ce ne stavamo così, tranquilli e rintanati a chiacchierare piano, quando abbiamo sentito quei rumori.
Un rumore di passi troppo lievi per venire da quelli che ci stavano cercando, ma troppo pesanti per un animale che ci avesse fiutato.
Il pastore sgusciò fuori per controllare.
Da quelle parti inibite a caccia e scampagnate, l’ incontro con qualche grosso animale era sempre possibile e i due proiettili che si era tenuto nel caricatore, erano destinati a finire sepolti in una buca o a spaventare qualche cinghiale che ce l’ avesse con noi.
Ma dopo un minuto di silenzio irreale ci arrivò un secco altolà, seguito dallo scatto del colpo in canna.
Mentre uscivamo fuori si sentiva la voce dell’ impotente, che tenuto sotto tiro ci sputava contro una serie di minacce con una cattiveria tale che ho desiderato gli sparassero, ma il colpo che mi ha bloccato non veniva dalle nostre armi.
Era un colpo potente ma smorzato, come se un gigantesco martello avvolto di stracci avesse colpito la terra facendola tremare e in un attimo una nuvola puzzolente ci ha avvolto.
Mi sono rialzato dopo qualche secondo, in tempo per vedere il pastore indietreggiare col fucile puntato.
Il pastore è uno abituato a dormire all’ aperto accanto al suo gregge e che si tratti di uomini o animali non ha paura di niente, ma vedendo la sua faccia pallida mi tremarono le gambe.
“Su demoniu è bennio a ‘ndi du pighi” gridava ”è benniu a’n d’ arretirai si depiddu”
E’ stato allora che tra il fumo che si diradava ho visto l’ animale.
Somigliava a un gatto ma era un’altra cosa, aveva un corpo potente e flessuoso nero come la pece e gli occhi rossi, accesi come fanali.
D’ istinto ho cercato la baionetta appesa al cinturone, ma quegli occhi mi hanno guardato e un terrore sconosciuto mi ha invaso corpo e anima.
Poi con un balzo l’ animale è sparito.
C’è voluto del tempo perché trovassimo il coraggio di andare a vedere da vicino.
La nuvola ormai era svanita, lasciando in aria solo un lieve sentore di zolfo e gli uccelli avevano ripreso a cantare.
Dove prima c’era l’ impotente restava solo il segno di una buca circolare, una specie di pozzo colmo di terra che le foglie cadute dagli alberi stavano già cancellando.
Di comune accordo decidemmo che sarebbe stato meglio non parlare di quella storia con nessuno.
Del colonnello che si era messo alla testa del gruppo che doveva intercettarci non si seppe più nulla.
L’ ufficiale e i soldati riferirono che ci aveva ripensato, fermandosi al margine del bosco mentre loro proseguivano nell’ inseguimento.
La Brigata mobilitò tutti i suoi reparti per cercarlo, la Finanza portò i cani e gli Alpini ispezionarono il monte, ma senza trovare niente.
Noi terminata la ferma tornammo a casa e per quello che ne so il ponte è ancora al suo posto, ma sono certo che nessuno ha voglia di rivederlo.