Racconto di Maurizio Boschiero

(Terza pubblicazione – 7 gennaio 2021)

 

 

Mia madre alzò gli occhi e prese la bottiglia un po’ sospettosa e sorpresa.

Sembrava indecisa ed esitante.

Poggiò gli occhiali in un angolo della tavola mezza apparecchiata e depose il coltello con il quale stava sminuzzando una cipolla che poi metteva nella “salsetta”, come la chiamava, con prezzemolo, olio, sale e concentrato di pomodoro che diventava il contorno per il lesso della domenica.

Sapeva che da me poteva aspettarsi delle stranezze – non sarebbe stata la prima volta- disse guardandomi.

“Apri le dissi deciso, è per te!”

” Dai aprila”.

Girò lentamente quel vetro tra le mani, lo soppesò poi lo rigirò ancora avvicinandolo agli occhi per via di quel difetto della vista che data l’età la tormentava.

Senza etichette e senza indicazioni, non capiva di che si trattasse, non immaginava; allora l’alzò in controluce e ne intravide il livello.

” Aprila dai, e assaggia” risollecitai ancora, quando capii che la liturgia andava per le lunghe.

Quel movimento lento e leggero di quelle vecchie mani con quel vetro sembrava una danza strana, un volo di uccelli, con una solennità ed una eleganza che si possono vedere solo in un prestigiatore.

Nella piccola stanza, che poi era la cucina, tutto si era fermato, solo le mosche ronzavano a mezz’aria nella luce che filtrava dall’unica finestra.

Fuori una dolce primavera cominciava ad affacciarsi nelle macchie di colore dei fiori che si facevano largo tra i rami ancora spogli delle piante e l’orto era segnato dalle geometrie precise del seminato; nella stanza i profumi del brodo che bolliva lento nella pentola di smalto rosso si confondeva con l’odore delle altre povere cose messe sul fuoco. Un po’ di patate, qualche fagiolo: quello era il pranzo della domenica.

Mio padre in un angolo con gli occhiali sul naso era tuffato sul giornale, ma seguiva la scena di sottecchi.

Il gatto su un cuscino dormiva raggomitolato, forse perso anche lui dentro i suoi pensieri.

Oggi 20 marzo 2005 -giornale radio- gracchiò la vecchia radio a valvole dimenticata sopra una mensola.

” E versate questa bottiglia”, bofonchiò mio padre, staccando gli occhi dal giornale forse curioso di vederne o assaggiarne il contenuto.

Mia madre allora poggiò la bottiglia sul tavolo e lentamente cominciò a girare il tappo di metallo.

Lentamente molto lentamente, che sembrava un rito, quasi a prolungare quell’attesa che magari poi si sarebbe rivelata ben poca cosa.

Finalmente il tappo fu nelle sue mani, che quasi tremavano.

Che fosse lo sforzo o che fosse l’emozione?

Quando si accorse che tutti la osservavano quasi con imbarazzo disse: ” Sono i dolori che mi tormentano” e guardò subito in basso. Ma io so che era l’emozione. Conoscevo mia madre, veniva dagli anni duri della guerra e della malattia, da privazioni e dalla fatica – anche un piccolo dono le sembrava una cosa preziosa-

La vita non le aveva regalato niente e quello che riceveva quasi sempre la commuoveva.

Poi si chinò verso la bottiglia e appoggiò il naso sul vetro. Chiuse gli occhi e annusò.

Tirò un lungo respiro, rimase in silenzio, riprese fiato, poi un altro respiro profondo. Nella stanza si sentiva solo il borbottio lento del brodo sulla stufa e quella schiuma che sobbolliva sembrava un mare di schiuma torbida e scura.

Scrutai il suo viso, bianco e teso; “Non capisco cosa sia sto odore strano, mi sembra acqua, ma non di fontana” disse lentamente scandendo le parole.

Allora le suggerii di assaporare quel liquido.

Ne versò alcune gocce sul palmo della mano e lo portò alla bocca: Toccò con la lingua.

“È salata”, disse ritraendosi, “Sa di sale e di lacrime” aggiunse ancora.

Mia madre conosceva bene il sapore delle lacrime, era una storia che partiva da lontano.

Classe 1920 aveva attraversato gli anni della giovinezza prima nella dittatura poi nella guerra, i fratelli in Africa a combattere, la paura dei tedeschi, la sofferenza della fame e delle privazioni.

I vent’anni li aveva compiuti in un ospedale, a consumarsi con il tetano che l’aveva aggredita e spogliata di tutto.

Perse i capelli e i denti e il fidanzato. Ridotta in punto di morte si salvò per miracolo, ma la sua vita era irrimediabilmente cambiata.

Si ritirò in casa in una specie di clausura che avrebbe mantenuto tutta la vita. Incontrò mio padre, si sposarono ed ebbero tre figli. Lui a lavorare come un cane in fabbrica lei a curare la casa sempre in bilico tra la solitudine e la depressione. Non usciva mai per nessun motivo. Era una specie di monaca seppellita tra le quattro mura domestiche.

Non usciva a fare la spesa, non partecipava a feste, matrimoni o altre cerimonie importanti; unica eccezione la messa domenica mattina, la prima, in modo da non incontrare nessuno.

Non aveva desideri, lavorava in casa e nella terra, in solitudine.

A volte la vedevo piangere di nascosto con le lacrime che le rigavano il viso. Ed io mi sentivo morire, impotente, con il gelo nell’anima.

Solo un giorno quand’ero poco più che un bambino mi confessò che sarebbe stata curiosa di vedere il mare. Ma non accadde mai. Nonostante le proponessi di tanto in tanto un viaggio. Una vita, se si può così chiamarla defilata e segreta con il solo desiderio del Mare.

Ed il MARE era in quella bottiglia senza etichette e senza segni.

Quando lo capì riprese in mano in fretta il coltello e riprese a tormentare la cipolla della salsa che aveva interrotto.

Le lacrime le scendevano copiose e rigavano il suo viso.

“Che c’è?” dissi timidamente

“E’ la cipolla che mi brucia gli occhi ripose con un fil di voce.

Erano invece lacrime per l’emozione di trovarsi una goccia di mare tra le mani. Tremava…

Si avvicinò al mio viso e mi baciò: era il suo primo bacio.

Quando se ne andò quasi novant’enne tra le sue cose scoprii un bottiglia con una etichetta scritta a mano con calligrafia antica: Acqua di mare di Venezia”.

Svitai lentamente e respirai profondamente: c’era ancora l’odore del mare e per un attimo mi parve di tornare in quella stanza in quella domenica di marzo.