Racconto di Marina Cerni

(Prima pubblicazione – 10 novembre 2020)

 

INTRODUZIONE

Questo breve racconto è fedelmente rispettoso della storia che mi ha raccontato mia madre, tante volte durante la mia infanzia e in modo più dettagliato ora che è residente in una rsa, durante la pandemia di Coronavirus , ora che non possiamo abbracciarci  e passeggiare insieme, ora che dobbiamo tenere la memoria allenata per non cedere all’inedia dell’isolamento , ora per riempire lo spazio  doloroso del distanziamento sociale di due metri,  che la memoria condivisa cerca di colmare.

Dal giardino in cui si affaccia la sua porta finestra raccolgo il suo racconto e ritrovo l’origine delle sue ansie, la radice profonda dei suoi timori, anche se è ormai impossibile cauterizzare le ferite ancora vive.

E’ una storia post-bellica, ambientata nell’appennino marchigiano, ma soprattutto l’episodio che ha cambiato il corso della sua vita e che ha inesorabilmente inciso a fuoco la sua vita psichica e sentimentale.

Da quel giorno la risata e la spensieratezza saranno per lei marchiate dal senso di colpa e da irrazionale irresponsabilità e il temporale diverrà solo foriero di disgrazie, per tutti gli anni a venire, non solo per lei ma anche per tutti i suoi fratelli

 

IL giorno prima non stavo nella pelle, l’eccitazione mi aveva tenuto sveglia fino a tarda notte: finalmente mamma aveva ceduto, grazie anche all’incoraggiamento di babbo Domenico, soprannominato el Ric, avremmo raggiunto le mie cuginette e le mie amiche a Lupaiolo e avremmo giocato fino a cadere sfinite nell’erba.

La guerra era finita, il fronte era passato, erano terminate le attese angosciose nelle grotte tra la vegetazione, la voglia di divertirsi e sorridere alla vita era tornata prepotente in me e in tutti i bambini che avevano assaggiato, se pur inconsapevolmente, la paura della morte.  Mio padre era tornato incolume dalla guerra, era sopravvissuto a due conflitti mondiali, tutto poteva andare solo meglio, finalmente.

La domenica mattina di buon’ora babbo partì per Lambruccia, che si trovava tra Belforte all’Isauro e S.Angelo in Vado, in cerca di tartufi in compagnia del suo speciale “vanghino” e con la cagnolina Pisa ,che lo seguiva fedelmente in ogni luogo.

La giornata era bellissima, il cielo terso ed io e mamma, poco dopo la partenza di babbo, ci incamminammo per Lupaiolo per raggiungere zia Angiolina e tutte le cuginette con le quali avrei giocato nell’aia e nei prati. A casa rimanevano i miei fratelli, Nino, Enzo, Gigio e mia sorella Antonietta detta Tola; erano tutti più grandi di me che avevo sette anni e tanta voglia di giocare e di essere felice.

Il viaggio a piedi sarebbe stato lungo più di dieci km e abbastanza arduo, valicando colline, guadando ruscelli e avrebbe richiesto più di due ore di cammino ma sicuramente ci avrebbe permesso di raggiungere la destinazione per l’ora di pranzo e far loro così una bella e inaspettata sorpresa.

La giornata era splendente e niente faceva presagire la tempesta che si sarebbe scatenata nel pomeriggio ma che nella Carpegna aveva già provocato molte piogge che avevano ingrossato i fiumi; proprio per questo motivo il ruscello che dovemmo guadare era impetuoso e ci fece perdere del tempo che per me era prezioso.

Lupaiolo era costituito da un gruppetto di case abbarbicate su uno sperone della montagna, la salita era molto erta e a tratti richiedeva quasi l’arrampicata; le case, fatiscenti e in parte diroccate, sporgevano a picco sulla roccia ma nel retro si affacciavano su un altipiano ricoperto da varia vegetazione ma soprattutto da immensi prati su cui si riversavano i tanti bambini che vivevano in questo minuscolo borgo.

Proprio per questa moltitudine di coetanei, oltre alle mie cuginette, avevo insistito per raggiungerli in quella domenica, anche babbo Domenico aveva spinto e convinto mamma affinchè mi portasse, così lui avrebbe approfittato della nostra partenza per andare in cerca di tartufi.

Zia Angiolina, al nostro arrivo, faceva la sfoglia in casa sulla madia, le cugine stavano finendo di riordinare le camere e l’ora di pranzo, con somma felicità di tutti, si avvicinava.

Nella grande tavolata sedevamo in più di venti tra le figlie di zia Angiolina, nipoti e noi ospiti; il piatto unico consisteva nelle tagliatelle, fatte poco prima da zia, ed eccezionalmente condite da uno strepitoso sugo di coniglio.

Dopo il pranzo iniziò la maratona di giochi che aspettavo con ansia dal giorno prima, corse tra i pagliai, moscacieca, salti con la corda, rimpiattino e qualunque gioco partorito lì per lì, da una fantasia inesauribile e incontaminata.

Purtroppo nel pomeriggio arrivò il temporale ma la pioggia battente non riusciva ad interrompere i nostri giochi e neanche le raccomandazioni di mia mamma e zia che ci intimavano invano di  rientrare.

Ricordo ancora con chiarezza le parole urlate sotto la pioggia: – Smettetela di fare gli sciocchi, cosa ridete? Non sapete che il temporale è pericoloso? Se un fulmine colpisce un pagliaio, va tutto a fuoco, c’ è poco da divertirsi dopo…!!

Queste parole che suonano ora come triste presagio, durante tutta la mia vita sono riecheggiate frequentemente e hanno offuscato e caricato di timore ogni singolo momento di serenità, impedendomi di viverlo appieno.

Noi, nonostante i rimproveri, continuammo a fare “gli gnorri “finché non tuonò perentorio il  monito di zio Pachino che ci ordinò di entrare in casa, senza se e senza ma.

Non avendo esaurito l’adrenalina accumulata e rifiutando di perdere anche un solo minuto giocato insieme, continuammo a far “caciara” all’interno e a saltare sui letti facendo infuriare le donne di casa. Capitavano di rado queste giornate di condivisione del gioco e del cibo e anche un singolo secondo aveva un valore diverso.

Il momento della cena non era comunitario ma ognuno si serviva e mangiava con un grappolo di uva, delle noci, un pezzo di pane con il formaggio e quindi senza alcuna preparazione in cucina.

Arrivò l’ora di andare a letto e così si chiuse quella che era stata una giornata magnifica, nonostante l’interruzione del temporale; in quattro ci infilammo in un letto matrimoniale, due in cima e due in fondo, come allora usava nelle case dei poveri.

Sopraffatta dalla stanchezza, sprofondai nel sonno e non saprei proprio dire se il temporale fosse continuato tutta la notte ma sono sicura di aver dormito di sasso, soddisfatta e senza timore alcuno.

Nel frattempo i miei fratelli, rimasti a casa a Belforte all’Isauro, vivevano nell’ansia e si accingevano a passare una notte insonne poiché babbo non era rientrato la sera; nelle prime ore pensavano avesse trovato riparo presso qualche abitazione ma poi, con il trascorrere del tempo , soprattutto Gigio, che era il più grande e aveva diciotto anni, aveva maturato il  timore che qualcosa di brutto fosse capitato al suo babbo, che non era rientrato neanche per la notte.

Il mattino successivo appena sveglie, dopo aver riassettato le camere e aver salutato a malincuore le cuginette, io e mamma partimmo alla volta di Belforte, ripercorrendo i tanti km che avevamo fatto all’andata e calcolando di essere a casa prima dell’ora di pranzo.

Quando fummo a metà strada nella dritta dello stradone tra Piandimeleto e Belforte, vedemmo venirci incontro in bicicletta Checchino, un nostro parente di Mercatale, il marito della ‘Frasia, una cugina di mamma, che sbracciava da lontano attirando la nostra attenzione.

Vidi un’ombra posarsi rapida sul viso di mamma che immediatamente gli gridò da lontano: E’ successo qualcosa’? Non dirmi di no, non saresti arrivato fino qua!”

All’inizio, dopo averci raggiunto, Checchino provò a darci una versione meno grave, raccontandoci che babbo era caduto facendosi un po’ male, poi, dopo l’insistenza di mamma, che andava ripetendo ossessivamente che se era venuto apposta fino a lì voleva dire che era grave e che lo supplicava di parlare sinceramente, disse la verità e le parole ci caddero addosso con violenza, come pietre:

-Fatti coraggio Gina, Menghin è caduto ieri, ed è morto sotto ca’ la Porzia al sasso del Gorgaiolo –

Mamma scoppiò a piangere disperata e per tutto il tragitto fino casa, mi ripeté come una litania: -Cocchina mia come faremo, cocchina mia come faremo…

Quello che vivevano i miei fratelli, nel frattempo, non era meno tremendo e tutto era iniziato la sera prima verso la mezzanotte, quando ancora infuriava il temporale nel momento che la nostra Pisa era ritornata a casa sola, abbaiando furiosamente.  Appena entrata in casa, aveva afferrato con i denti la gonna della Tola, cercando di trascinarla così verso l’esterno e facendo capire loro che dovevano uscire. Ancora era notte ed era impossibile e pericoloso per loro mettersi a cercare babbo, purtroppo avrebbero dovuto attendere molte ore insonni, cariche di paura e sgomento, prima di mettersi in cammino.

All’alba Gigio, che era il più grande, insieme ad un suo amico che lo avrebbe supportato nella ricerca, si mise in cammino verso ca’ la Porzia, che era la prima casa che si incontrava andando verso la montagna; erano guidati poi dall’istinto e dall’orientamento di Pisa che era stata sicuramente di fianco a babbo fino all’ultimo momento e ora voleva portarli sul luogo dell’incidente.

Gli abitanti di Ca’ la Porzia confermarono i timori di Gigio raccontando che la sera prima Domenico non aveva accettato l’ospitalità e non si era voluto trattenere nonostante l’incombere della tempesta perché si sentiva sicuro con la sua Pisa e perché non poteva lasciare i suoi figli soli e per i quali portava in tasca cinque noci “bufalone”, una per ognuno di noi.

Quelle noci rimasero, in seguito, per anni nella nostra casa, come fossero reliquie, simbolo materiale dell’amore di babbo nei nostri confronti, finché il tempo non le decompose del tutto.

Arrivati al sasso ritrovarono, come temevano, pochi metri sotto la roccia, il corpo di babbo, ferito a morte dal suo amato vanghino che lo aveva trafitto in testa durante la caduta.

Quando io e mamma giungemmo a casa trovammo ad attenderci molte persone, i vicini, i carabinieri e i nostri affranti fratelli e ogni passo verso la casa diventava più pesante e inaccettabile: avrei voluto, ma non potevo più cancellare quella maledetta giornata.

Nei giorni seguenti io e Tola fummo mandate ai Soni, una casa poco lontana , per tenerci lontane dal dolore , per farci distrarre dai giochi dei coetanei, e impedirci così di partecipare al funerale;  ma  noi lo vedemmo da lontano, tra le lacrime, di nascosto con le nostre cugine  che ci avevano guidato a Ca’ Pieruccio, che si trovava su una collinetta e dalla quale si poteva vedere, in basso , il cimitero.

Da quella mattina, in cui ci raccogliemmo in casa intorno al corpo martoriato di babbo, mamma cominciò ad ammalarsi e a deperire, nonostante io e i miei fratelli ci prodigassimo in tutti i modi per nutrirla,  con zabaioni freschi di uova regalateci dai vicini, con parole di incoraggiamento e di affetto, ma niente, mi madre non mangiava e ripeteva solo, all’infinito , ossessivamente :- Come faremo, come faremo…chissà quanto ci avrà chiamato, chissà quanto ci avrà aspettato….-

Contemporaneamente anche Pisa smise di mangiare e anche se la avevamo tolta dalla cuccia esterna e la avevamo portata in casa per curarla con amore, dopo pochi giorni morì.

Mamma invece si ammalò gravemente di depressione e inedia; chiusa in un mutismo impenetrabile  venne ricoverata in una clinica e  fu  sottoposta alla terapia con elettrochoc,  per cercare , anche se in modo drastico e terrificante , di frantumare  quel guscio invisibile ma inespugnabile ,con il quale si era barricata.

Suo marito aveva superato incolume due guerre, non poteva morire così, non poteva lasciare cinque figli soli e una moglie che non vedeva più un futuro per tutti loro.

Ricorderò sempre con angoscia, i miei pianti segreti nei bagni pubblici del castello di Belforte, chiusa in quei “bugigattoli”, pregavo Dio di non portarmi via anche la mia mamma, supplicandolo di cancellare quel maledetto giorno che aveva distrutto le nostre vite, supplicandolo di impedire che altri temporali devastassero i nostri destini.

Mia mamma, grazie a Dio, si riprese, ma ricorderò per sempre le sue parole premonitrici durante i giochi, nel pieno di quella giovane e incosciente felicità, per sempre ricorderò quel gesto minaccioso con la mano, dettato dalla rabbia, di mio fratello Nino che mi addossava la colpa di aver portato via mamma da Belforte e aver segnato forse in questo modo, il destino di babbo.

Ricordo tutto con sensi di colpa incancellabili, ricordo ogni gesto, ogni parola, ma soprattutto ricorderò per sempre i tuoni e il tremendo silenzio che, per tutta la vita, seguì.