Racconto di Maria Francesca Cantacessi

(Terza pubblicazione – 27 gennaio 2021)

 

 

 

Sto fissando il cielo azzurro su di me, mentre osservo, una lunga scia grigia disegna una retta perpendicolare: un aero sorvola la città. Abbasso lo sguardo, alla mia vista si presentano dei rami d’ulivo che spiccano liberi nella luce di un tiepido sole pomeridiano di fine gennaio. I rami sono come ciuffi ribelli spettinati in una bella capigliatura. Mi concentro sul gruppo di persone sedute di fronte, un gruppo di cittadini con usi e costumi e leggi italiane che hanno deciso nel “giorno della memoria” di incontrarsi in un campo Rom.

Il campo è l’unico “riconosciuto” ufficialmente dalla regione Puglia, quindi accettato dalla comunità italiana. Fuori una pattuglia di carabinieri controlla se l’adunanza è regolare, pronti ad intervenire. Siamo seduti su sedie che noi definiremmo “vintage”, offerte dagli abitanti del campo. Ci hanno ospitato sotto un enorme tenda bianca su un prato, siamo circondati da secolari alberi di ulivo. L’ulivo è una pianta che cresce nei caldi e temperati paesi mediterranei da sempre simbolo di pace.

Mentre aspetto, mi chiedo, se ho mai superato la paura dello zingaro, del nomade. Sono quelli che in città puliscono i vetri ai semafori in cambio di una monetina, mi rendo conto che non mi sono mai soffermata a chiedermi se questi uomini avessero un’anima, dei sentimenti, una famiglia. Spesso, li ho guardati infastidita, a volte, quando andavo di fretta, li ho coperti di insulti. La paura che scaturisce dall’ignoranza, mi ha sempre impedito di andare verso “l’altro”, “il diverso”, ad accogliere! Accogliere uomini con una storia, a cui hanno negato perfino la memoria! Sfrattati, maltrattati rinchiusi nei lager, annientati senza un motivo!

Le case, nel campo, sembrano fatte di materiale riciclato sono costruite in semi cerchio, alcune hanno sull’uscio dei festoni di carta colorata di giallo e di rosso, le donne hanno lunghe gonne variopinte i bambini corrono felici nello grande spazio verde che hanno a disposizione. E’ un villaggio a misura di uomo, una comunità gioiosa e felice!! Restiamo tutti esterrefatti, la gente, intorno, che è arrivata fin qua, disponibile al confronto, è rimasta sbigottita. Nessuno si aspettava che in questo posto, avremmo trovato tanta gioia e tanta gentilezza. Questi ragazzi e queste donne, che timidamente ci hanno accolto, senza indugi, questo popolo di nomadi che porta impresso nella propria storia un inspiegabile persecuzione da parte dei nazisti tedeschi, hanno negli occhi, la forza e l’orgoglio di appartenere alla propria comunità.

Ci presentano “il capo”, una persona squisita che scrive poesie, ha cinque figli e quindici nipoti! Legge a tutti noi una poesia (gli zingari sono poeti?). Parla dell’angoscia di trovare un po’ di spiccioli, presso un semaforo rosso, che gli possano permettere di comprare qualcosa per i suoi piccoli; ma l’unico spicciolo che riesce a ricevere lo usa per chiamare la sua famiglia e per rasserenare la madre a cui dice che lui si trova in Italia e di non preoccuparsi perché è riuscito ad ottenere la cittadinanza e finalmente adesso è italiano a tutti gli effetti!

A” loro” serve poco per essere felici! Un campo nel verde, poche lamiere sul capo e i bambini intorno che fanno festa!  Mentre noi siamo il popolo “civile” che vive nelle case sontuose, lussuose. Siamo sempre in ansia, preoccupati a difendere i nostri confini e i propri averi, impegnati ad accumulare oggetti inutili per colmare la nostra solitudine, impegnati ad accumulare ricchezze e nonostante ciò non siamo mai felici.  Noi che non riusciamo più a godere dei piccoli doni che la vita ci offre, per esempio di una giornata di sole all’aria aperta. Forse non proveremo mai l’ebbrezza di possedere nulla che non sia un solo paio di scarpe, l’unica giacca che indossiamo e una grande voglia di vivere felici!  Noi rinchiusi in case pulite, riscaldate, super accessoriate: le nostre prigioni d’oro! Case dove i bambini non possono sporcare o giocare! Prigionieri delle nostre paure, ammalati di depressione, di psicosi inguaribili, perché ormai viviamo una vita lontano dalla natura. Cerchiamo inutilmente di dare un senso alla nostra vita, ma nessuno ascolta, nessuno sa quali sono i propri sogni, non amiamo, temiamo il diverso, il vicino, abbiamo sempre le braccia incrociate, sempre arrabbiati, corriamo verso la fine, prigionieri della nostra stessa vita!

Ci offrono frittelle e musica e i bimbi si avvicinano ridono, belli e buoni…ma tra poco dobbiamo andare. Scende la sera silenziosa e serena… nessuno di loro ha paura del domani, il sole è andato via, loro non hanno paura del buio. Vivono in sintonia con la natura, sanno che domani il sole risorgerà e se qualcuno non starà bene e se avrà bisogno, tutta la comunità sarà pronta ad aiutarli e sanno che nessuno sarà mai lasciato solo!

Oggi ho capito che la libertà non è un spazio, un tempo, una idea… Libertà è avere “poco” e condividere quel “poco” con gli altri e farlo con semplicità e amore! Questo è la loro ricchezza!

Oggi “noi” qui siamo stati tutti un po’ più liberi e felici! Per un attimo… poi… il ritorno alla civiltà!