Racconto di Silvia Marcarini
(Quinta pubblicazione)

 

Non ho mai saputo il vero nome della donna che mi rovinò l’esistenza.
Dal giorno del nostro incontro, il passato m’insegue come un branco di lupi.
La conobbi quando avevo compiuto da poco dodici anni. Non mi capitava spesso di frequentare gli adulti. Il loro mondo non mi piaceva: ai miei occhi era così brutto che talvolta credevo non fosse reale.
Ero stanca della guerra che aveva trasformato la mia casa in un cumulo di macerie a cui spesso facevo ritorno scappando dalla comunità di suore che mi ospitava. Vegliavo quel luogo come un cane nostalgico accovacciato fedelmente sulla tomba del padrone.
Thérèse era poco più giovane di mia madre. Aveva una chioma bionda e occhi scuri come la notte. Non avevo mai visto uno sguardo tanto carismatico da cui però non trapelava alcun sentimento.
Il profumo di una baguette appena sfornatami attirò verso di lei che con astuzia sapeva come placare la fame di un randagio.
“Cosa ci fai qui tutta sola?”mi domandò con un buffo accento.
A quella domanda alzai le spalle per non piangere.
“Dove sono i tuoi genitori?”
“Sotto i miei piedi. Questi sono i resti della mia casa bombardata un anno fa” replicai con voce tremante.
Quel giorno non riuscii a salvarli: in pochi attimi una cascata di mattoni ci separò per sempre.
“Come ti chiami ragazzina?”
“Colette Dubois”.
“E lei, signora?”
“Chiamami Thérèse”, mi rispose facendo l’occhiolino.
Thérèse era molto brava a conquistare la fiducia delle persone. Con me fu molto semplice.
Bastò un suo sorriso e mi ritrovai a vivere da lei.
La sua villetta sprofondava tra le sterpaglie di un giardino immerso nell’oscurità; sembrava un relitto marino incagliato dasecoli nelleprofonditàdegli abissi.
Quando varcammo la porta d’ingresso era già pomeriggio inoltrato; filtrava poca luce nell’atrio.
Una danza di piccole ombre proiettate sui muri del corridoio centrale avanzava velocemente verso di noi.
Da lì a poco alcuni bambini ci vennero incontro.
Erano gli orfani di Thérèse, avviluppati in abiti corti e stretti, forse gli stessi del giorno in cui lei li trovò a vagabondare nelle strade di un quartiere fantasma.
In serata mi unii alla sua tribù per la cena.
Ogni bambino divorava avidamente la propria razione di zuppa, arricchita da pezzettini di pane secco. Quel cibo così annacquato e fumante sembrava pensato appositamente per loro. Una tavolata d’anime che aveva scordato cosa fosse l’amore.
Quella notte non riuscii a prendere sonno. Condividevo un vecchio materasso matrimoniale con altre due bambine più piccole di me.
Nella penombra, intravidi nella parete l’opera astratta di un artista dal grilletto facile: solchi che sembravano contenere alcune perle di piombo. Pallottole.
I bambini giocavano con le poche cose a disposizione. Durante il giorno aiutavo la mia benefattrice con le faccende domestiche. Di tanto in tanto mi divertivo a sfogliare i suoi libri di medicina, abbandonati sul tavolo della sala. Thérèse era un medico e lavorava nel seminterrato della casa.
In quella sua tana sotterranea portava spesso anche i piccoli, e quando ritornavano in superficie parevano piuttosto pallidi e assenti.
Mi raccontavano come la donna abusasse del loro corpo, somministrando periodicamente delle dolorose iniezioni.
I bimbi si sentivano deboli dopo quel trattamento. Alcuni si ammalavano e rimanevano a letto per parecchi giorni.
Tutti avevano una profonda cicatrice a forma di “x” sotto l’ascella destra.I più grandi la esibivano come trofeo di una vecchia battaglia.
Thérèse mi proibì d’andare nel suo laboratorio. Per qualche oscura ragione, volle escludermi da quel gioco spietato.
Una mattina mi spaventai per le forti urla del piccolo Jacques.
Scesi velocemente le scale e cercai di aprire la porta chiusa a chiave.
Dopo qualche minuto, Thérèse mi apparve sulla soglia in camice bianco.
Per un istante non la riconobbi. Sembrava un animale notturno posseduto dai suoi bassi istinti.
Ero sconcertata da quella visione.
“Non azzardarti più a venire qui se non te lo chiedo io”, mi minacciò, furibonda.
Da quel giorno ignorai il suo rituale quotidiano.
Avevo paura di lei.
Là dentro non avevo possibilità di scappare. C’erano inferriate alle finestre e porte inaccessibili ovunque.
Inaspettatamente, però qualcuno lasciò la casa. Sparirono alcuni bambini. I più deboli.
Penso che la mia caritatevole amica li prelevasse durante la notte dal loro letto.
La casa di Thérèse era frequentata da due uomini.
Ogni mese si presentavano alla porta, puntuali come un orologio svizzero.
Thérèse indossava il vestito migliore per riceverli.
Klaus e Bruno erano degli strani fattorini. Trasportavano una cassetta metallica bianca con un’incomprensibile scritta rossa: “Luftschutz – Hausapotheke”.
Avevano degli impermeabili lunghi e neri. Sul loro cappello, c’era un’aquila con le ali spiegate che pareva volesse spiccare il volo e un macabro teschio color argento.
A noi bambini non era consentito stare con loro, così ci rifugiavamo nelle nostre stanze con la speranza che se ne andassero il prima possibile.
Purtroppo, l’impareggiabile duo si tratteneva sino a notte fonda, intonando delle vecchie canzoni popolari, dopo aver bevuto qualche birra di troppo.
All’alba i due uomini svanivano silenziosamente come degli esseri spettrali.
Nell’estate del 1945 qualcosa cambiò.
La guerra rovesciòle sorti di molte persone.
Klaus e Bruno smisero di farci visita, forse giustiziati in qualche vicolo buio.
Un pomeriggio arrivò una strana telefonata; per Thérèse fu un amaro risveglio.
Il nemico fra poco avrebbe sfilato sul carro dei vincitori. E presto sarebbe giunto fino a lei.
Vidi il suo volto trasfigurato. Un’eclissi interiore le oscurò l’anima con impeto violento.
Allora, mi prese per i capelli trascinandomi con forza nel seminterrato.
Varcai per la prima volta il suo inviolabile sacrario: un arsenale di aghi, provette e strumenti chirurgici che superavano in gran lunga quelli del Dr. Jekyll.
Sbatté il mio capo contro il lavandino e subito dopo sulla maniglia dell’armadietto dei farmaci.
Credetti di morire. Fortunatamente i miei sensi cedettero subito.
Dopo alcune ore, un forte cigolio mi svegliò da un profondo torpore.
Ero distesa su un freddo lettino situato al centro del locale.
Mi alzai lentamente e girai la testa verso la fonte del rumore. Il soffitto.
Vidi Thérèse sospesa nel vuoto con una corda intorno al collo.
Sembrava una marionetta con i fili tagliati, tranne uno, nello spettacolo di morte più triste che avessi mai visto.
È passato un mese da quel giorno.
Quando gli Alleati fecero irruzione nella nostra dimora la mattina seguente ci dissero che eravamo stati fortunati.
Ai bambini di Amburgo era stato riservato un destino peggiore.
Ora viviamo reclusi in un nuovo labirinto di stanze. I medici ci osservano con molto interesse sotto stretta sorveglianza. Siamo terribilmente contagiosi.
In questo periodo, i miei migliori amici sono dei fogli di carta e una penna.
Thérèse non saprà mai di aver superato le aspettative del suo mentore.
Io ne sono la prova vivente.
Mentre ero incosciente, mi inoculò un ceppo virale che lei stessa aveva coltivato nel suo laboratorio. Morì senza aver ultimato il relativo vaccino.
Thérèse sapeva che sarei stata l’arma perfetta.
Non rispetto mai le regole.
Forse, il tempo che mi rimane da vivere non è molto.
Penso che sia arrivata l’ora di lasciare questo posto.