Racconto di Angela Potente

(Prima pubblicazione)

 

 

Ho sempre amato guardare attraverso le finestre illuminate delle case. Direte che sono strano. Può darsi. Ricordo che da bambino, quando sfrecciavamo in macchina con mio padre, lungo strade costeggiate da case di ogni forma e colore, facevo la conta di quante finestre illuminate mi passavano davanti agli occhi. Immaginavo le vite dietro quei riflessi fugaci di luce e i sogni che vi aleggiavano dentro come farfalle colorate. In quei frangenti sognavo quel che mi mancava: il calore di quattro pareti e di un focolare. Crescere con un fuggiasco ha purtroppo di questi effetti collaterali.
Mio padre era ciò che oggi, o anche ieri, chiameremmo un fuggitivo. Io non sapevo cosa significasse questa parola. La sentii per la prima volta la mattina che mi ritrovarono con uno zaino malconcio e vuoto sul ciglio di una strada sterrata a pochi metri da un benzinaio chiuso da chissà quanto tempo. Lui, facendomi scendere dall’auto, mi disse «aspettami qui. Torno presto». A quanti minuti, o ore, o giorni, corrispondesse quel “presto” non l’ho mai scoperto. Più o e meno nove anni prima le stesse quattro parole me le aveva sussurrate mia madre, abbracciandomi, prima di lasciarmi per inseguire la pia illusione di ritrovare se stessa insieme ad una specie di guru spirituale. A mio padre aveva lasciato tre sole parole, vergate in fretta, su un biglietto attaccato alla porta: “scusa, devo andare”. Era cominciata così la nostra nuova vita a due, in una assolata mattina di fine luglio. Fino a quel momento lui mi aveva visto solo come un complemento d’arredo del disordinato appartamento che abitavamo. Ma quella mattina ricordo che mi aveva fissato negli occhi, forse per la prima volta, e con ciglio risoluto mi aveva detto: «Ok. Ci provo». Cosa mai volesse dire con quel “ci provo” me lo chiedo ancora adesso. Però devo ammettere che ci ha provato. Per uno come lui, abituato a passare le giornate a scrivere e studiare senza vedere altro che i suoi fogli e i suoi calcoli, non deve essere stato facile ritrovarsi con un marmocchio cui badare. Eppure ci ha provato. Si era trovato un lavoro come assicuratore, stipulava polizze in giro per la contea, e siccome possedeva il dono della parlantina riusciva a combinare più di un affare. Per i primi tre anni circa ho avuto quella che si poteva definire una normale routine quotidiana, una casa e un frigorifero ben rifornito. Se fossi stato più grande avrei capito che non poteva durare quell’idillio fatto di me&papy allegra famigliola. Ma a sei anni cosa potevo saperne della vita e dei sogni di un uomo che si era ritrovato a fare il padre per un capriccio del destino (e della moglie)? Ad un certo punto qualcosa doveva essersi spezzato in lui. O forse, più presumibilmente, si era ricomposto. Un pomeriggio, tornando da scuola, avevo trovato la sua auto già nel vialetto. Era insolito, perché di norma tornava almeno un paio d’ore più tardi rispetto al mio rientro. Entrando in casa lo avevo chiamato. Mi aveva risposto dal retro della casa. Avvicinandomi avevo sentito molti rumori senza però riuscire a riconoscerne alcuno. Lui era spuntato da dietro una pila di sacchi e scatoloni e con un sorriso smagliante mi aveva detto «preparati, stiamo per cavalcare verso il tramonto!» e poi aveva riso per quella che secondo lui doveva essere una battuta divertente. Io rammento solo che mi si era gelato il sangue nelle vene. Lui con quella frase aveva siglato l’inizio del nostro vagare.
Cambiavamo auto, non casa attenzione, ogni sei mesi. Alla sostituzione dell’auto corrispondeva ogni volta il cambio della cittadina in cui soggiornavamo. Aveva stabilito che il tempo massimo per un’eventuale identificazione fosse sei mesi circa. Come e perché e secondo quali criteri scientifici o statistici, fosse arrivato a questa idea non mi era comprensibile all’epoca né lo è adesso a distanza di quasi 25 anni. Con il senno della maturità sono ora convinto che sia stata solo fortuna che nessuno ci abbia mai intercettato. Certo mantenevamo un profilo che rasentava il centro della terra, tanto era basso e profondo, ma è stato per un misto di caso e fortuna se abbiamo resistito così a lungo fuori da ogni radar. Sceglieva piccole cittadine, non grandi – dove «ci saremmo persi per sempre» come mi ripeteva spesso – né medie perché in città di medie dimensioni c’era di certo più dispiego di forze di polizia. Nelle piccole città, sempre secondo le sue teorie, al massimo potevamo trovare uno sceriffo poco sveglio e abituato a reati non più gravi di una rissa tra sbronzi. Cosa lo avesse convinto di questo teorema non lo so, considerando quanto lui stesso rappresentasse l’emblema vivente di cosa potesse produrre la sonnolenta provincia con la sua vita nascosta e piena di segreti. Inoltre a smentire queste sue strampalate teorie contribuiva, invece, il fatto che ad ogni ingresso in una nuova cittadina, dato che spiccavamo come una mosca su un bignè alla crema, avevamo puntualmente alle costole un lampeggiante rosso prima ancora di rendercene conto.
Ma era un uomo fantasioso e di ingegno perciò nel tempo aveva affinato una tecnica, che lui definiva “di attacco”, e appena varcava i confini di un nuovo paese si dirigeva direttamente verso il posto di polizia. Mi chiudeva in macchina, scendeva stiracchiandosi e con l’aria più naturale del mondo lo vedevo entrare nell’ufficio dello sceriffo per rivederlo, poco dopo, al fianco di un uomo in divisa sorridente che gli dava gran pacche sulle spalle. Cosa gli raccontasse non mi era dato sapere. Probabilmente una qualche storia strappalacrime su un povero padre vedovo senza lavoro e con marmocchio appresso. In questo modo, negli anni, ha gabbato almeno ventiquattro tutori dell’ordine che, sono certo, avessero da qualche parte anche la sua foto segnaletica, ma letteralmente non lo riconoscevano, e non perché si travestisse, semplicemente perché, con quell’aria scanzonata appariva come l’uomo più mite dell’universo conosciuto e oltre. Nascondersi in piena vista era stato il suo colpo di genio. E se siamo rimasti nell’ombra per quasi sei anni forse tutti i torti non aveva. Quelle pacche sulle spalle e quegli sguardi pieni di umana comprensione da parte degli sbirri, per me significavano soltanto che per almeno sei mesi ottenevo una tregua da quell’estenuante peregrinare da un motel all’altro. E tanto mi bastava. Un bambino si accontenta di poco in fondo. Anche solo di un mattone dove potersi sedere, gustando in pace un gelato, e un raggio di sole a scaldargli la fronte. Almeno, a quel bambino, che ero io, bastava solo questo.
La mattina in cui mi hanno ritrovato avevo compiuto ,da appena due settimane, 12 anni. Quando mi aveva fatto scendere dalla macchina, non so se aveva pensato che avessi raggiunto l’età giusta per cavarmela da solo, o avesse semplicemente presentito che il suo tempo stava per scadere e volesse salvarmi. So solo che mi aveva guardato con quei suoi occhi azzurri cielo, pieni di malinconia, e aveva continuato a guardarmi fisso nello specchietto retrovisore mentre si allontanava tra i granelli di polvere che i suoi pneumatici consumati sollevavano. Mi aveva fissato, forse per imprimersi nella retina l’ultima immagine di suo figlio, finché io per lui non ero diventato una figurina indistinta, e lui per me una nuvola di polvere sempre più piccola.
Ciò che è venuto dopo, gli assistenti sociali, le case famiglie, i rimbalzi da una famiglia affidataria all’altra, i tribunali, li ho vissuti come un sogno, come se fossero stati vissuti da qualcun altro. I miei ricordi veri si interrompono a quel momento su quella strada impolverata. A quegli anni trascorsi insieme a mio padre. Per molto tempo non gli ho perdonato di avermi abbandonato, per anni ho dovuto combattere con la rabbia di non sapere perché da un momento all’altro mi fossi trasformato in una zavorra di cui non sopportava più il peso. Eppure quando, anni dopo, mi raccontarono chi fosse mio padre, e di quante banche avesse rapinato mentre io lo attendevo in macchina leggendo fumetti, l’unico moto dell’anima che mi si smosse fu un sentimento d’amore e compassione. “Il rapinatore gentile” lo avevano battezzato i giornali, perché non aveva mai messo mano ad un’arma. Entrava sorridendo e sorridendo usciva insieme al malloppo. Saranno stati quegli occhi così azzurri ad ipnotizzare i diversi cassieri, chissà. Il suo soprannome lo scoprii una mattina in cui per la forte pioggia avevo cercato riparo in una biblioteca. Avevo già circa vent’anni, e il desiderio di capire e sapere mi indusse a cercare tutti gli articoli che lo riguardavano. Trovai decine di articoli. Notai che i cronisti, nel descrivere ogni nuovo colpo, si dilettavano in ipotesi di volta in volta più fantasiose. Io invece, leggendo, collegai ogni città, ogni banca, al ricordo di un nuovo giocattolo, a una nuova notte sotto le stelle mentre mi insegnava le costellazioni, o mi raccontava i miti greci, o le leggende dei nativi americani. Lo ricordo, ancora adesso, mentre alla luce di un fuoco mi declamava i versi dell’Iliade e dell’Odissea, che amava particolarmente, forse perché pensava a se stesso come ad un novello Ulisse. Quella mattina più leggevo tutti quegli articoli, più mi rendevo conto che l’immagine che il mondo mi restituiva di mio padre non corrispondeva in nulla con l’uomo che era stato veramente. Né con quanto mi aveva insegnato: dal nome di ogni albero che incrociavamo sul nostro cammino o dei fiumi lungo le cui rive mi aveva insegnato a nuotare. Ritengo di essere stato uno dei pochi bambini in grado di recitare l’Amleto solo perché la mattina presto, davanti allo specchio, mentre si faceva la barba, ne recitava il monologo con l’enfasi del più navigato degli attori. Ricordo, come fosse accaduto un minuto fa, che chiudendo ogni file, e ogni articolo che lo riguardava, una risata inarrestabile mi gorgogliò nel petto scuotendomi in ogni fibra. E credo di non aver riso mai più come quel giorno.
I giornalisti nel descrivere la sua cattura suppongo avessero giocato molto al rialzo. Ma io lo vedo.
Lo vedo scendere dall’auto, stiracchiarsi come nulla fosse e sorridere. Sorridere verso le pistole mentre gli aprivano il fuoco contro.