Racconto di Adriano Fischer

(Prima pubblicazione – 1 marzo 2021)

 

 

 

Ho fatto un sogno ieri. L’ho fatto ieri? Era ieri? Non saprei. Non sogno mai, almeno io non ricordo. So che invece si sogna sempre ma non sempre i sogni arrivano al cosciente. Comunque ho fatto questo sogno e per la prima volta c’era Betty Lou.

Era talmente strano che di primo acchito, non ho pensato fosse un sogno, che è quello che penso quando non penso di sognare. Quando vidi Betty Lou al salone del libro, infatti, rimasi sorpreso. Lei piuttosto mi ha guardato come se il sogno fosse suo ed io ne fossi l’ospite, uno di quei giochi che solitamente fa il subconscio, o era così o non stavo sognando.

Insomma, eravamo al salone del libro che si trova a Torino ma, sebbene il palazzo fosse proprio quello di Torino, per un motivo che il sogno non spiegava e che per Betty Lou era assolutamente normale, la città era Roma, cioè il palazzo del salone del libro era nel mezzo del quartiere di Trastevere; il cielo, tuttavia, così come l’atmosfera, accenti e profumi, era tutta piemontese.

Non ho mai portato Betty Lou da nessuna parte, nessun salone, nessuna fiera. Troppa la differenza di età, lei troppo giovane e attraente, io che vecchio tormentato mi domando ossessivamente quando, quando, a che ora, in che momento, è sfiorita la mia giovinezza. Mi vergognavo allora delle ciance, dei colleghi sbrodoloni, di ogni tipo di allusione, perché un uomo che si accompagna di una troppo giovane, per di più piacente come la mia commessa, non può non passare inosservato.

Appena l’ho vista, in piazza di santa Maria in Trastevere, sul primo gradino della fontana, lì seduta, evidentemente in mia attesa, confesso, ho sentito una stretta al cuore. Anche se poi Betty Lou non era esattamente Betty Lou, cioè era Betty Lou ma non alla sua età, molto più giovane, una liceale, una sedicenne. Era pur sempre lei con i caratteri infantilizzati e appena erotizzati, la tipica giovinastra che sta apprendendo le arti della seduzione, neofita del mestiere della civetteria, ancora goffa, imbranata. Era una bella serata e ci siamo ritrovati con un po’ di gente, colleghi, avventori, a bere qualcosa alla taverna Trilussa. C’era armonia tra i presenti, stavamo tutti in un tavolo ma si chiacchierava principalmente in coppia. Ciascuno aveva il suo calice in mano e Betty Lou era l’immagine della felicità. Teneva quel bicchiere sempre a mezz’aria e a malapena appoggiava le labbra sul vetro. Le cose si sono un po’ complicate quando ho notato che Betty Lou era diventa l’oggetto delle attenzioni di alcuni presenti. Due in particolare che avevano persino avvicinato la sedia alla ragazza.

Da questo trio mi sono sentito escluso e, ancora di più, perché questi due non si erano neppure presentati con il sottoscritto, quasi fossi invisibile. Trovavo quella scenetta molto irritante e sconveniente. I due signori erano attempati, miei coetanei avrei detto, sulla cinquantina, forse di più, soprattutto quello più piccolo che provava a insinuarsi con la testa perché, diceva, non ci sentiva bene, lui avrà avuto una sessantina d’anni, questi due, non senza imbarazzo, giochicchiavano con una ragazzina che sarebbe potuta essere teneramente loro figlia. Tuttavia, di questi dettagli Betty Lou non se ne curava, anzi, assecondava avances e battutine ridendo e portando la testa all’indietro, così all’indietro.

Irriconoscibile. Mi sentivo particolarmente provato, desideravo che quelle zecche andassero via, che vergogna, alla loro età! Io non mi sarei mai… Provavo proprio pietà per il genere umano.
Pregavo e contavo i minuti che trascorrevano interminabili, ma sapevo che non avrei fatto nulla, nulla che desse a vedere il mio scontento. Chissà che stava pensando Betty Lou, passare per geloso alla mia età, nella mia posizione. Insomma, erano questi i motivi che mi trattenevano dal fare una scenata. Io, in realtà, nonostante il vino, gli amari, i cocktail e chissà che altro, avevo mantenuto le distanze formali – quelli, infatti, erano colleghi e quella era la mia impiegata – al contrario i presenti si erano fatti vincere da una lascivia molto giovanile e piuttosto fuori luogo. A Betty Lou non sembrava neppure pesare la situazione, ci sguazzava dentro quel profluvio di blandizie e doppisensi e non ne era sazia. Mai.

Betty Lou inaspettatamente mi strinse un mignolo. Lo avvolse con una delicatezza intima, impercettibile. E lo fece così continuando a darmi le spalle. Probabilmente fu il suo modo per rassicurarmi, sigillando un tacito accordo attraverso questo contatto. Io provai a tirare un sospiro di sollievo ma piuttosto avvertivo quella presa sciogliersi per via del sudore che quel vecchio mignolo inavvertitamente cominciava a produrre. Segnale o no, quella era la prima volta che i nostri due corpi si toccavano. Un pensiero che mi diede un fremito intenso, un fremito che avevo dimenticato che potesse percorrere così elettricamente un corpo, improvvisamente avvertì il cazzo diventarmi duro e pronto a combattere. Non ricordo di aver vissuto niente di più meccanico. Me ne vergognai da morire. Un uomo della mia età! L’impiegata! La ragazzina! Avevo sublimato la mia vita in nome dei libri e quella reazione così insolente, che minacciava la mia razionalità! Poi improvvisamente stacco.

Ci ritrovammo Betty Lou ed io in un vicolo deserto e poco illuminato. Quando dico deserto intendo disabitato, senza vita. Una strada vecchia, anzi antica, che non era più Roma, la pavimentazione fatta di basole, rivoli d’acqua che serpeggiavano attorno e finivano dentro i tombini, ricordava Napoli. Eravamo a Napoli, sì, sulla sinistra avevamo la Basilica di Santa Chiara. Osservavo tutto con estremo stupore e non meno sospetto. C’era freddo e un orario indefinibile, avrei detto le tre del mattino. Forse, chissà, ma affidarsi ai sogni! Betty Lou mi passeggiava vicina raccolta dentro una lunga sciarpa rossa di lana, un cappuccio calzato fin sotto le orecchie, ciuffi di capelli che sgusciavano fuori formando dei ricci bianchi. Non ricordavo il colore dei suoi capelli ma ero più che certo non fossero mai stati bianchi.

Betty Lou sembrava sapere per dove eravamo diretti, se io mi guardavo intorno come un turista, o comunque uno di passaggio, lei, invece, mostrava familiarità con quel luogo. Restammo in silenzio godendoci quel leggero venticello freddo che ci solleticava il viso.
Pensavo alla sua mano sulla mia e speravo che la cosa si fosse potuta ripetere prima di separarci per la notte. Cercavo le sue mani con lo sguardo, quasi a tentarmi, a tentarla, ma erano timidamente rincagnate dentro le maniche.

Quando pensavo che la notte fosse finita, che avremmo preso strade diverse, ecco che ci ritrovammo dentro il Continental. La hall era luminosissima, c’erano lampadari enormi appesi al soffitto, pieni di cristalli, una luce che non risparmiava nessun angolo, si respirava un’atmosfera nobiliare, mancavano probabilmente le note di Strauss, e qualche coppia che si avventurava al solito giro di valzer. I pochi presenti erano signori di una certa età, tutti canuti, slavati, capelli color cenere, una fisicità asciutta ma molto eleganti. L’aria era calda e soffocavo.

Il concierge era un ragazzo vestito in livrea, alto e con un sorriso di circostanza. Gentile, affabile, ci diede la chiave della camera. Betty Lou la raccolse, io la seguì senza fare domande. Per un attimo mi sembrò che facessimo quella vita da sempre. Che girassimo alberghi di lusso, i migliori ristoranti, con la gente che ci seguiva con invidia. Lei era così disinvolta, rispettabile, così sicura di sé. Irriconoscibile. Continuammo a non dirci nulla come una vecchia coppia rodata e adesso stanca. Lei poi non mi guardava neppure, giochicchiava con la rondella della chiave, con le dita, stranamente consumate e rattrappite, seguiva l’incisione del numero della stanza.
Prendemmo l’ascensore centrale che si era aperto in quell’istante. La luce al suo interno era fioca e illuminava a intermittenza il profilo di un vecchio, anch’esso in livrea, che ci aspettava all’ingresso.
«Sesto piano!» disse Betty Lou che cercava invano la sua immagine nello specchio.

Osservavo il vecchio che stava immobile a fissare un’anta della porta le sue mani nodose che teneva dietro la schiena, come gli scendeva larga la giacca sulle spalle, le ossa del collo che fuoriuscivano scarnificandolo, la pelle flaccida della mascella, il calco del cappello che calzava stretto, le asticelle consumate degli occhiali. Gli chiesi, non so perché, non m’interessava poi granché la risposta, come si chiamasse quel suo lavoro, quello di accompagnare su e giù i clienti con l’ascensore.

«Lift boy» mi rispose con fare stanco. Come Boy? pensai. Betty Lou trattenne appena una risata.

Arrivati al nostro piano, procedemmo per un lungo corridoio anche questo illuminato. Non c’era nessuno e si sentiva solo l’eco dei nostri passi. Le camere si succedevano dopo un lungo intervallo, dimostrazione di quanto fossero spaziose. Finalmente Betty Lou si lanciò su quella che sarebbe dovuta essere la nostra camera. Questa era come immaginavo molto grande, sul letto matrimoniale una composizione di asciugamani formava un cigno, tutt’intorno sparpagliati c’erano petali di rose, profumo di lavanda, alle pareti stampe di Mirò.

Betty Lou si liberò del cappuccio, una cascata di capelli bianchi scivolò sulle spalle. Continuando a darmi la schiena cominciò a spogliarsi, così naturalmente, come se lo facesse ogni sera, senza pudore, senza sensualità, esausta e pronta a infilarsi sotto le lenzuola. Sistemava tutto sulla spalliera di una poltrona, le scarpe sotto, con movimenti appesantiti e sciatti, senza rivolgermi la parola.
Sono rimasto a osservarla impotente e sorpreso, anche perché, velo dopo velo, non la riconoscevo più, non era la Betty Lou che un giorno di secoli prima era entrata in libreria per chiedere lavoro. Era una donna, una donna anziana, magra, con un seno cadente, con i capelli bianchi e uno sguardo sfiorito sebbene sereno. Si voltò e con un sorriso m’invitò a entrare, non disse niente, ma quegli occhi, l’espressione mi sembrava di sapere tutto di lei, quello che pensava. Vedevo il suo stupore nel trovarmi impalato all’ingresso, mi fece cenno con una mano, con l’altro braccio copriva il seno per pudore ma principalmente perché non ne era mai andata fiera. Neppure in giovane età.

Non sapendo cosa fare mi rifugiai in bagno. Le dissi di aspettare un attimo, pavidamente, temevo che mi seguisse, che sospettasse chissà che, del resto ero stato bravo fino a pochi minuti fa. Cercai il modo di chiudere perché non c’erano chiavi, forzando la porta incespicai sul tappetino e caddi sbattendo la testa sullo spigolo freddo del lavandino. Un rivolo di sangue fuoriuscì dalla fronte. Fui abbagliato da una sequenza di luci che cingevano lo specchio. Erano cinque le lampadine di cui una – quella centrale – fulminata. Sempre fulminata. Sempre la stessa. Mia madre la cambiava una volta la settimana, quella benedetta lampadina. Ci doveva essere qualcosa che non andava, un problema di circuito elettrico probabilmente, o un difetto di fabbricazione. Mi pulì con l’acqua fredda ma il sangue continuava a sgorgare ininterrottamente dalla ferita che era davvero impercettibile. Ero devastato, stravolto e poi arrabbiato perché dovevo allungare le braccia per raccogliere il filo d’acqua che scorreva dal rubinetto. Mi sciolsi improvvisamente in un pianto d’impotenza, quasi letteralmente, come burro che si ritira a prima vista sotto i raggi del sole. In questo modo. Già immaginavo le urla isteriche della mamma appena mi avrebbe visto con quel taglietto sulla fronte. Chiusi allora il rubinetto con non poche difficoltà, dovendo arrampicarmi per stringere la manopola e vedere finalmente il rivolo d’acqua estinguersi. Betty Lou mi chiamava con tono snervante,
«tesoro» diceva «ancora in bagno?»

Ero pronto per uscire, mi asciugai pure le lacrime per non fare preoccupare Betty Lou, quando l’occhio mi cadde sul colletto della camicia, quella nuova, azzurra, che la mamma mi aveva comprato con tanto entusiasmo, e con altrettanto aveva detto che mi vestiva alla perfezione, contenta che non indossassi più quei felponi, larghi tanto che mi ci perdevo dentro, che alla mia età avrei dovuto combinarmi in modo più civile, una striscia, una striscia di un rosso bruciato, ormai solidificata, tipo ceralacca, era stampata su un’ala del colletto.

Ho provato a scrostarla ma, anche se andava via, restava l’ombra, un alone fastidioso, che disturbava l’armonia del lindore, della perfezione che piaceva tanto alla mamma. Così me ne liberai, accartocciai la camicia e la buttai dentro il cestino della roba sporca, già pieno tra vestiti, mutande, calzini. Uscì esitante e con tanto, tanto imbarazzo. Trovai Betty Lou seduta sul bordo del letto, con la vestaglia stretta sui fianchi, i piedi dentro calzoni di spugna che giocavano con le pantofole, le borse sotto gli occhi e le guance flaccidine e lievemente pendenti.

Betty allora scoppiò a ridere, una risata isterica e smascellata. Assunse poi gradualmente un’espressione indefinibile, affettata, che esprimeva biasimo e dolcezza. Stavo docilmente a torso nudo, con i pantaloni di un uomo, le cui gambe, lunghe come due tentacoli pestati e tramortiti, finivano quasi sotto il letto. Sarà stata quest’immagine forse a suscitare il riso a Betty Lou? Mi guardai corto per com’ero, glabro, le manine, e non trovai nulla di eccezionale, ancora meno nulla di ridicolo.
Betty Lou allora mi sollevò in braccio, non pesavo niente ma ormai i suoi anni si facevano sentire tutti, e così, senza indugiare, anche con fare sbrigativo, forse temendo di farmi cadere, mi depose dentro la cuna, mi tirò su le coperte, mi rintanò dentro le braccia e, dopodiché, non lesinando il solito bacio sulla fronte, mi diede la buonanotte.