Racconto di Angela Potente

(Sesta pubblicazione)

 

La mia storia inizia trentatré anni fa.

Venni al mondo in una notte di pioggia. O almeno così mi dicevano. A ogni mio compleanno, il racconto della mia nascita si arricchiva di sempre nuovi particolari. Capii poi, inventati sul momento. Per regalarmi una storia, un passato, un’origine certa.

I miei genitori io li ricordo sempre anziani. E da piccola questo fatto mi faceva soffrire, perché non c’era bambino che a un certo punto non mi chiedesse «sono i tuoi nonni?». No, non lo erano. Erano le due persone, canute certo, che io credevo essere i miei genitori. Quando scoprii la verità, avevo già vent’anni, molti fatti trovarono spiegazione e mille altri invece necessitavano di essere chiariti. Ma in quel momento non mi feci alcuna domanda: mi avevano cresciuta amandomi, forse troppo severi o protettivi, termine che a loro piaceva di più, ma non facendomi mai mancare il calore di un abbraccio quando tornavo da scuola affranta per qualche dispetto di una compagna, o conforto quando le prime delusioni amorose fecero capolino nella mia vita. Il periodo delle vacanze era speciale, andavamo ogni volta in posti diversi e loro non perdevano occasione per insegnarmi qualcosa di nuovo in ogni viaggio. Il ricordo dell’atmosfera natalizia creata da mia madre, perché per me questo era lei, mia madre, è tra ciò di più caro che serbo nel cuore. “Ma prima o poi il sangue chiama”, disse un giorno mio padre, forse presagendo già qualcosa. E non si era sbagliato: accadde una mattina in cui mi ero svegliata presto per uscire. Mi ritrovai a osservarmi nello specchio, guardavo me stessa, gli occhi, la loro forma, la bocca piccola, il naso sottile e gli zigomi alti. Fissavo quei lineamenti che non si riflettevano in nessuno in quella casa.

Quel viso apparteneva a qualcun altro, quegli occhi dal taglio così particolare erano eredità di altri geni. E improvvisamente sentii fin nella più piccola delle mie fibre il bisogno impellente di sapere.

Sapere da dove venissi, chi fossi veramente. A chi dovessi quelle fattezze. Ma il pensiero di fare soffrire le due uniche persone al mondo che si fossero presi cura di me mi lacerava dentro. Passai mesi a rimuginare su cosa fare, come agire senza urtare la loro sensibilità finché un giorno mia madre mi chiamò in giardino. Stava piantando nuovi bulbi ed era china su alcuni vasi. Pensai volesse aiuto invece lei esordì:

«Sembri un funambolo su un filo di seta. Hai paura di cadere e non riesci a fare un altro passo e resti lì sospesa a mezz’aria senza andare avanti, senza poter tornare indietro».

«Non capisco, mamma…» replicai. Lei continuò: «Ti abbiamo accolta e voluta. Mi hai regalato una possibilità che credevo perduta per sempre: essere madre. Il tuo debito con noi, con me, è stato saldato nello stesso istante in cui ti ho tenuta tra le braccia la prima volta». Mentre parlava non alzò mai la testa, muoveva le mani nella terra come una pianista, scavava, poggiava i bulbi e li ricopriva con dolcezza. Io ero paralizzata, non sapevo cosa risponderle, provavo solo un irrefrenabile impulso di abbracciarla per rassicurarla ma restai in piedi a guardarla mentre si prendeva cura di quelli che sarebbero stati fiori bellissimi così come aveva fatto con me.

«Quando i medici mi confermarono che non avrei mai potuto avere figli, mi sentii crollare il mondo addosso. Non perché abbia mai pensato che una donna si completi o realizzi solo nella maternità, non sono così superficiale, ma era qualcosa che desideravo e sapere che sarebbe rimasto solo un sogno mi riempiva di malinconia. Trascorsi mesi a piangere per ciò che avrebbe potuto essere e non sarebbe mai stato. Finché non sei arrivata tu».

«Mamma…» riuscii solo a dire.

«Ma ora penso che sia arrivato il momento in cui cerchi la tua strada. Devi sapere da dove vieni. Devi poter riconoscere il tuo volto. È giusto così. Niente di ciò che tu possa fare mi toglierà mai la gioia di averti avuta».

Si alzò e per la prima volta da quando aveva iniziato a parlare mi guardò fisso negli occhi. Da una tasca del suo grembiule prese un foglietto e me lo strinse nel palmo della mano: «C’è un indirizzo. Da qui puoi iniziare le tue ricerche. Questa sarà sempre la tua casa, qualunque cosa tu scoprirai. Non dimenticarlo…» Mi sorrise e io feci quello che l’istinto mi stava urlando da mezz’ora: la abbracciai come un naufrago può abbracciare la tavola di legno che lo tiene in vita. Era una donna minuta ma forte e determinata, qualità che mi aveva trasmesso con l’esempio, e in quell’abbraccio mi parve allo stesso tempo piccola e grandissima.

Dopo quella conversazione presi finalmente coraggio e iniziò così il mio peregrinare da un ufficio all’altro, da un impiegato stanco all’altro. Giorni, settimane, in cui ogni strada si rivelava un vicolo cieco. Sembrava che la mia madre naturale avesse fatto di tutto per non farsi rintracciare. Ci arrivai per puro caso. A volte quello che desideriamo lo abbiamo davanti agli occhi ma per un misterioso motivo non lo vediamo. Navigavo su internet senza pensarci, cercavo solo un modo per distrarre la mente, quando mi imbattei in un articolo su una donna, che un tempo era stata una famosa ballerina classica, finita in un Istituto di cura e al centro di una diatriba tra il Consiglio di amministrazione e i suoi avvocati. A quanto diceva l’articolo la donna, senza figli o parenti ancora in vita, aveva firmato un documento nel quale figurava il nome del direttore dell’Istituto come unico delegato per la gestione delle sue finanze e nella scelta delle cure. Si era scoperto soffrisse di una rara malattia genetica che progressivamente le aveva impedito di camminare e inibito l’uso delle mani. La delega, a detta degli avvocati della donna, era ritenuta frutto di una circonvenzione. A me tutta la storia apparve come una lotta tra squali per aggiudicarsi il bottino. L’articolo non citava il nome dell’Istituto. Era un pezzo probabilmente riempitivo e la notizia sembrava essere più una curiosità che una notizia vera. Un articolo acchiappa click che sfruttava la morbosità della gente per certe storie. Stavo scorrendo oltre quando un particolare mi colpì come uno schiaffo in pieno viso. L’articolo era corredato da una foto: mostrava una giovane donna all’uscita di un teatro. Il fotografo l’aveva sorpresa e lei aveva una mano alzata per schermarsi dalla luce del flash. Ma gli occhi si vedevano benissimo, così come gli zigomi e una parte del naso. Erano i miei. Continuai a fissarli per non so quanto tempo. Sembrava uno specchio d’acqua in cui ogni dettaglio del mio volto si rifletteva, rimandandomi la mia immagine.

Cercai il nome dell’articolista e rintracciai la sua email. Dovevo saperne di più. Passarono giorni senza che ricevessi una qualunque risposta e i miei nervi cominciarono a risentirne. Sentivo di essere vicina, ma la posta elettronica continuava a tacere. Arrivò quando ormai avevo perso le speranze. Grazie alle indicazioni del giornalista arrivai al nome dell’Istituto. Chiamai un amico avvocato dei miei genitori a cui raccontai tutto. Mi disse di non fare nulla e di attendere una sua chiamata, ma io avevo aspettato così tanto tempo che non avrei atteso un minuto di più. Lei, quella donna, era mia madre e l’avrei riavuta a ogni costo. Aveva bisogno di me. E io di lei.

Ma avrei dovuto capirlo subito, dallo sguardo in tralice della receptionist al banco, che non sarebbe stato semplice quando mi presentai al Centro di cura.

Alle sue spalle si aprì lo spiraglio di una porta e un paio di occhiali su un naso importante fecero capolino sbirciando nella mia direzione. Ero seduta su una delle scomode seggiole della sala d’attesa e le mani mi tremavano così tanto che per impegnarle in qualcosa iniziai a sfogliare una delle riviste poggiate sul tavolino basso di fronte a me. Probabilmente era lì da chissà quanto tempo, appiccicosa e insulsa la riabbandonai dopo solo pochi secondi al suo destino di polvere. L’attesa ormai si protraeva da più di due ore e io non riuscivo più a stare ferma. Mi alzai e con passo incerto mi riavvicinai al banco. La ragazza leggeva qualcosa e non mi fece la cortesia di alzare gli occhi. Non sapevo se mi ignorava di proposito o se fosse semplicemente assorta in ciò che stava leggendo. Tossii piano per attirare la sua attenzione ma il mio tentativo cadde nel vuoto. Proprio mentre stavo per aprire la bocca una voce urlò il mio nome:

«Claire Johnson?»

«Ssì…» balbettai.

«Sono io».

La voce apparteneva a un giovanotto con un camice bianco che avrebbe avuto bisogno di un viaggio in lavanderia. Mi fece un cenno con la mano affinché lo seguissi. Ci inoltrammo lungo un corridoio dalle pareti che un tempo dovevano essere bianche e verde chiaro, ma che ora avevano assunto un colore grigiastro, come se le due tinte si fossero fuse insieme dando vita a qualcosa di indefinito e triste. Tutto in quel posto trasudava tristezza. Precedendomi raggiunse una porta.

«Si accomodi, il dottor Stewart arriverà tra poco» disse aprendola e mi lasciò sola.

La stanza era abbastanza grande, una finestra, da cui entravano obliqui gli ultimi raggi di sole del giorno, affacciava sul cortile interno della struttura e in lontananza si vedevano i profili degli alti palazzi del centro. Numerosi schedari erano allineati su tre delle quattro pareti dai cui cassetti semiaperti trasbordavano cartelle e documenti alla rinfusa. Ogni ripiano presente in quello studio era letteralmente invaso di faldoni e pratiche. Una scrivania enorme occupava lo spazio antistante la finestra, due poltroncine e un divano, che di sicuro aveva visto giorni migliori, completavano l’arredamento dello studio in cui ero stata abbandonata da mister camice bianco spiegazzato. Dava l’idea di essere accogliente e soffocante nello stesso tempo. Sull’unica parete libera campeggiava un diploma di laurea incorniciato, ma i caratteri erano così sbiaditi che non riuscii a leggere quasi nulla se non una data “1978”. Restai lì in piedi, con le gambe che mi dolevano, per non so quanto tempo ancora, finché finalmente non sentii dei passi e qualcuno che si schiariva la gola. Sentii un cigolio di cardini, mi girai ma l’uomo non entrò dalla porta da cui ero entrata io ma da un’altra, nascosta, che non avevo notato per via degli scaffali.

«Salve» mi disse allungandomi una mano salda.

«Sono il dottor Stewart».

«Si accomodi pure, mi scusi per il disordine ma siamo in attesa di trasferirci nel nuovo complesso» si giustificò lasciando in sospeso la frase.

Seguii il suo invito e mi accomodai nella poltroncina libera.

«Cara signorina» iniziò, regalandomi una strana sensazione, le persone a volte mi trattano con sufficienza prima ancora che io apra bocca e quel suo modo affettato di rivolgersi mi urtò e confuse allo stesso tempo.

«Mi hanno informato del motivo che l’ha portata qui, ma abbiamo un grosso ostacolo davanti. Vede, lei, il suo nome intendo, non risulta da nessuna parte nella documentazione che abbiamo della signora».

Deglutii sabbia, inspirai e riuscii a dire solamente: «Sì, lo so. Sto aspettando che il giudice mi dia accesso alla documentazione inerente alla mia nascita, ma…» lui mi interruppe con un movimento delle mani prima che potessi concludere.

«E io, anzi noi, come Istituto saremo ben lieti di aiutarla quando porterà tutti i documenti, ma al momento non possiamo proprio venirle incontro. Sa, per una questione di privacy ma anche di sicurezza per la signora stessa». Si alzò, facendomi capire che mi stava congedando, mi allungò di nuovo la mano e sorridendomi disse: «Ora, lei capirà, ma ho molto di cui occuparmi». Mi accompagnò alla porta richiudendomela alle spalle senza che io avessi avuto la pur minima possibilità di spiegare o perorare la mia causa. Percorsi a ritroso quell’orribile corridoio le cui pareti sembravano chiudersi sopra di me a ogni passo.

La sala d’attesa era più affollata, la receptionist era sempre con il capo chino e io avevo appena fatto un buco nell’acqua.

Eppure non ho mai mollato. Averla nella mia vita è stata la missione primaria per tutti i mesi a seguire. E non dimenticherò mai quando dopo aver fatto la trottola tra avvocati e tribunali finalmente riuscii a incontrarla. Non credo siano state ancora inventate le parole giuste per descrivere ciò che provai quella mattina. La sala comune del Centro era vuota quando entrai. O almeno così mi parve all’inizio. C’erano una serie di tavolini e poltroncine, rivestite da una buffa stoffa a fiori, quasi ovunque. Un lungo tavolo, probabilmente per la colazione, occupava un lato dello spazio, e di fronte enormi portefinestre davano sul giardino. Sulla parete in fondo campeggiava una Tv. Mi guardai intorno e proprio dinanzi l’ultima portafinestra la vidi. Era di spalle, seduta su una poltrona e pensai stesse dormendo. Nell’avvicinarmi, con le gambe che non smettevano di tremare, riconobbi il profilo, uguale al mio. Non stava dormendo, guardava assorta fuori, quando le arrivai a poco meno di un metro si girò verso di me. E ci specchiammo l’una nell’altra: lei rivide sé stessa giovane io vidi la me stessa del futuro.

Sorrise e disse:

«Sapevo che mi avresti trovata. Perché ci hai messo così tanto?» e allungò le mani per prendere le mie. Aveva le dita piegate dalla malattia ma riuscì lo stesso ad afferrarmi e a stringermi. Nessuna altra parola fu detta quel giorno. Restammo così a fissarci e a tenerci le mani finché i raggi del sole non lasciarono il posto alla luce della luna.

Oggi lei è con me, la malattia le sta rovinando anche le corde vocali e più che parlare ormai sussurra, e in ogni nuovo sussurro mi svela pezzi di sé affinché io ricomponga il puzzle della sua vita. Il cuore possiede un linguaggio tutto suo che non ha bisogno d’altro. E i nostri cuori cantano ormai all’unisono. Se non ho potuto essere sua figlia, adesso sono io la madre e ne ho cura come della rosa più preziosa. Le ho perdonato, forse ancor prima di vederla, di non avermi tenuto con sé. Chi può davvero giudicare cosa si cela nel segreto del cuore di una madre? Il suo gesto, per il mondo sconsiderato ed egoista, è stato un dono per qualcun altro. E ogni mia sofferenza è stata levigata dal sapere che non ha smesso un minuto di amarmi concedendo anche a un’altra donna di farlo. L’amore, in fondo, non necessita di altro.

Solo di sé stesso.