Racconto di Silvana Esposito

(Prima pubblicazione – 15 gennaio 2021)

 

 

Guardava il cielo dalla piccola finestra dell’abbaino nel quale viveva, cercando delle risposte tra le nuvole.

Quando era piccola, si soffermava spesso a guardare il manto azzurro percorso dalle nuvole e si chiedeva se fra esse sarebbe comparso il volto di suo padre che, come aveva più volte affermato la mamma, era salito in cielo.

Più tardi, avendo saputo e capito che i morti non popolano il cielo e mai sarebbero stati visibili ai nostri occhi. Cercava lassù un qualche segno divino, una qualsiasi immagine che le desse conferma degli occhi vigili degli Angeli, del volto misericordioso della Madonna o della presenza di Dio, cioè di quanto ostinatamente la suora le ripeteva.

Solo crescendo, nella contemplazione del cielo, misurava la propria incapacità di contenere, seppur nell’immaginazione, quel senso d’immenso e di eterno che percepiva dal susseguirsi delle ore, dei giorni, sempre diversi e sempre uguali.

Con il viso proteso verso l’alto, osservava il cielo ora grigio: nuvole nere andavano ad ammassarsi in punto preciso. Un fulmine improvvisamente illuminava con la sua scarica elettrica tutto il circostante e lei si mise a contare in attesa del tuono, come faceva da bambina.

Che cosa era cambiato? Le abitudini dell’infanzia, da molto tempo passata, erano ancora così vive!

Se ne rese conto mentre aspettava la voce del tuono, una voce sempre diversa secondo l’intensità della tempesta, a volte un boato lontano, a volte come un colpo di frusta che faceva sobbalzare.

Non aveva mai avuto paura dei temporali. Guardava sempre con curiosità la pioggia, che fosse scrosciante o che venisse giù in tante goccioline leggere, quasi una danza. E osserva le gocce cadere sul vetro della finestra fino a formare una scia che piano piano inglobava le altre che più lentamente scivolavano. Le seguiva fino al loro disperdersi.

Quando il temporale si faceva violento, si soffermava sulla forza del vento che riusciva a piegare gli alberi, poi alzando gli occhi guardava con meraviglia il rincorrersi delle nuvole a volte nere a volte di un grigio ferro che a tratti lasciavano intravvedere uno scampolo di azzurro, più su, più in alto.

C’era una sorta di sintonia tra quello che vedeva e quello che sentiva dentro. Come un tumulto che si accordava perfettamente a quello scenario.

Come un tempo cercava risposte là dentro, cercava di placare la sua inquietudine perdendosi in quella immensità. Per un attimo, sentiva che si fermava il tempo e dimenticava il suo presente.

Cieli azzurri o temporali, vento impetuoso o calde e calme giornate di sole, aria frizzante o freddo intenso tutto muta, come una misteriosa metafora che spiega la vita.

Quell’inquietudine che sentiva forte dentro e che si materializzava in quello scenario tempestoso, aveva un’origine precisa. Soltanto ora, nell’azzeramento dello spazio e del tempo, in quella contemplazione del cielo, avvertiva la perdita di ogni sovrastruttura mentale. Sentiva quell’energia vitale, soffocata dagli schemi, incanalata dall’educazione e dal conformismo sociale, emergere con una tensione inusuale.

In un attimo si annullava la subliminale adesione agli schemi, che già dalla nascita indicavano il come e dove condurre la propria esistenza: secondo quali regole e attraverso un percorso già dato, con variabili e deviazioni già contemplate.

E’ strano come il tempo poi restituisca la propria originalità, si diventa vecchi e si perde (finalmente) il ruolo che la società ti ha affibbiato e che voracemente (a volte), con rassegnazione (spesso) si assume, pur non avendolo SCELTO/ VOLUTO, adeguandosi al flusso della vita.

Si diventa vecchi e lentamente si denuda la propria natura. A volte riemergono tutti i risentimenti, a volte si prendono le distanze da quello che siamo stati, mentre più spesso si resta attaccati inesorabilmente a ciò che eravamo.

Parliamo di noi stessi con estraneità, come di qualcuno che abbiamo conosciuto e frequentato perdendolo poi di vista, per cui la sua vita non ci riguarda più se non come un racconto da leggere ad altri per autocelebrarci in una narrazione che facciamo fatica a riconoscere, in un presente che per molti è inaccettabile.

Nessuno ci insegna a invecchiare. Ma questo tempo, che tutto consuma salvo sé stesso, produce nell’animo umano effetti imprevedibili e insondabili.

Si torna all’origine, facendo affiorare quelle ferite mai sanate, sapientemente occultate a noi stessi e agli altri.

Ricucire le ferite ora, coniugando il passato e il presente con equilibrio, per affrontare un futuro che ha un solo elemento prezioso: il tempo.  Perché tutto finisce.

Questo pensava. E Osservava il cielo. Quell’immensità ora azzurra ora grigia non era più lo schermo entro cui cercare risposte introvabili.

Non c’erano più domande.

Rimaneva l’insoluto mistero che sarebbe stato svelato con… la chiusura del cerchio.