Racconto di Valeria Ronsivalle

(Sesta pubblicazione)

 

 

La prima volta che ti vidi, indossavi una lunga gonna rossa e un top nero, e ai piedi portavi un paio di ballerine decolleté nere.
Chi dice che una donna con le ballerine non è sexy non ha mai visto te: quel giorno la semplice inconsapevolezza del fascino che esercitavi sugli altri ti rendeva irresistibile, le lunghe gambe affusolate e quegli occhi che riflettevano tutti i colori del mare.
Mi arrivasti addosso urtandomi mentre i tuoi occhiali volavano per terra e tu, impacciata, mormoravi vaghe scuse brontolando mentre li cercavi:
“Scusami, sono cieca come una talpa.”
Avrei scoperto più tardi che era solo una scusa per mascherare il tuo imbarazzo.
Ti porsi i tuoi occhiali, sbirciai la targhetta interna, recava il nome di un ottico.
Da quel giorno tutti i giorni, per un mese, mi recai sul luogo del nostro incontro, nella speranza di poterti incontrare.
Al trentesimo giorno mi venne una folgorazione: andai dall’ottico impresso nella targhetta dei tuoi occhiali. E sfoderando il mio sorriso più bello, chiesi alla commessa:
“Per caso conosce una ragazza? è alta, mora, capelli lunghi e neri, occhi azzurri. Ha acquistato presso di voi un paio di occhiali grandi, rotondi, con montatura essenziale.”
La commessa rise divertita:
“Le ha fatto pure tac e risonanza magnetica?”
e ridacchiò.
“Non so, arrivano qui tante clienti, come posso ricordarmi?”
“La prego …”
implorai.
“E va bene, mi faccia pensare … Ha detto occhiali grandi, rotondi e con montatura essenziale? È Ines, li ha portati qui la scorsa settimana per farli aggiustare. Sì, è lei.”
“E come posso fare a rivederla?”
mi feci ardito, mentre il cuore mi si fermava in gola per l’emozione.
“Provi in biblioteca. Che io sappia si reca lì tutti i giorni per la sua tesi di laurea.”
Ringraziai la paziente commessa profondendomi in lunghi mormorii di devozione, e me ne andai volando. Solo giunto a casa mi resi conto che non avevo idea di quale delle 5 biblioteche della nostra città tu frequentassi.
Ci misi una settimana per scoprirlo, e tu nel frattempo eri già andata via.
Mi dissero che eri lì solo di passaggio, che venivi da un altro paese. E che saresti tornata tre mesi dopo, per completare il lavoro di documentazione alla tesi.
Tornai a casa sconsolato, come privato improvvisamente dell’aria da respirare, e nei tre mesi successivi mi cercai ogni genere di lavoretto possibile e immaginabile da fare per tenermi impegnato.
Avevo quasi dimenticato quanto tempo era passato, quando, un giorno, ti rincontrai per caso, anzi, sarebbe meglio dire che mi scontrai con te per caso, visto che mi arrivasti addosso scivolando vicino alle scale rese sdrucciolevoli dalla pioggia.
“Ma allora è un vizio!”
esclamai, nascondendo la mia felicità: in quel momento esatto avevo ripreso a respirare.
Ti aggrappasti a me per non cadere, e quando la tua mano sfiorò la mia io sussultai.
La tua pelle profumava di gelsomino, i tuoi capelli lunghi raccolti, stavolta, a mo’ di tuppo, fermati da una penna sulla nuca.
Ti osservai meglio mentre ti sistemavi dopo la caduta: la timida ragazza che mi aveva colpito, aveva lasciato il posto a una donna più sofisticata. Ma com’era possibile che in tre mesi fosse stata possibile una tale trasformazione?
Un paio di pantaloni affusolati metteva in mostra le lunghe gambe sinuose. Un corpetto aderente sottolineava un corpo da sirena.
Le ballerine eran state sostituite da lunghi stivali.
Ti guardai timidamente per non metterti in imbarazzo: ti avrei adorata anche se ti avessi vista in pigiama.
Sorridesti, e io non seppi dire più nulla.
Poi andasti a prendere la metropolitana.
Per un mese, ogni giorno, venni in biblioteca: mi sedevo accanto a te facendo finta di studiare, come se la mia presenza lì fosse casuale e fosse stato il luogo a farci ritrovare.
Al trentesimo giorno mi porgesti un bigliettino con un numero e dicesti:
“Allora, che deve fare una ragazza per farsi portare a prendere un caffè da uno come te?”
In effetti … Annotai il telefono scritto sul bigliettino sul cellulare.
“Via De Gasperi 185, Caffè della Stazione. Ti andrebbe di ritrovarci lì per le 11.00 ?”
“11 e 30, e sii puntuale che dopo ho una lezione.”
rispondesti.

Credo che in vita mia mai scorderò quella mezz’ora.
La riconosci subito la felicità: è quieto senso di benessere, come se qualcuno finalmente ti pompasse ossigeno nei polmoni. Come sentirsi appartenere a un mondo, e averlo finalmente raggiunto. Come riappropriarsi di sé stessi e immergersi nella pace.
Come riconoscere tra milioni, colei/colui che senza nulla fare, per il solo fatto di esistere annulla ogni maschera che ti sei costruito addosso, e fa emergere la parte più vera di te.

Non ti rividi più, dicesti che a casa avevano bisogno di te, che c’era stato un imprevisto, e ripartisti il giorno dopo.
Ci scrivemmo per un anno, in modo essenziale: una foto, un video, due parole ogni tanto, ma a me bastava.
Non sapevo nulla del tuo  mondo, che facessi, chi frequentassi.
Ma a me bastava.
Ogni volta che provavo a spinger più in là il discorso mi spiazzavi con una battuta e così riponevo le mie velleità amatorie e mi accontentavo di adorarti.
Un giorno, dinanzi al tuo ennesimo tentennamento almeno di sentirci al telefono, mi arrabbiai e non ti scrissi per una settimana. Mi riacchiappasti facendomi ridere, in una giornata di pioggia interminabile, in cui la malinconia era stata sovrana.
Vivevo per il momento in cui mi avresti scritto. A volte ti mandavo un messaggio, e rimanevo in linea fin quando la spunta grigia non diventava blu e tu visualizzavi.
Provai a spiegarti che no, non mi bastava quel che mi davi, che volevo di più.
Che io ti amavo, o almeno credevo di farlo. Che se proprio a te  non fosse importato, bastava dirlo, mi sarei fatto da parte. Non rispondevi, sparivi per giorni e poi riapparivi mandando una foto innocente e sparendo di nuovo.
Un giorno, reso geloso dall’ennesima assenza, mi ribellai, e ti dissi che non ero tipo da rapporto siffatto, e che visto che ti negavi al telefono per me il rapporto doveva intendersi concluso.
Non dicesti una parola.
Oh come furono duri i giorni successivi: fu come se qualcuno mi avesse strappato il cuore dal petto.
Come sentire un buco al posto del cuore. Come se un cane feroce mi avesse strappato a morsi l’anima, e data in pasto alle fiere.
Al quindicesimo giorno, piegato dalla sofferenza in cuor mio pregai che ti rifacessi viva, che mi strappassi questo dolore dal petto.

Ci avrei scommesso su, che la sirena tornasse col suo canto ammaliante.
Ci avrei scommesso e avrei perso, che mai più tornò.
E in quel momento mi rese la mia libertà.