(Quarta pubblicazione)

 

 

Bevve come una spugna: birra chiara e birra scura e bicchierini di vodka e di whiskey.

E quando fu sbronzo fradicio, all’ora di chiusura, si fece dare una bottiglia di vino novello da portare via per sicurezza, come se temesse che la sbornia gli passasse troppo in fretta. E in effetti, lo temeva. Dato che non aveva con sé il cavatappi, si assicurò che la bottiglia avesse il tappo a vite, perché era pur sempre uno preciso, ancorché sbronzo.

Sbronzo e triste.

Aveva trattenuto le lacrime tutta la sera: non voleva lasciarsi andare in quel cazzo di pub davanti al suo amico, che gli sbrodolava la sua promozione e il suo matrimonio imminente, facendolo rodere dall’invidia e dallo sconforto. Ma appena fu fuori, nella notte, prese a piangere, prima sommessamente e poi scosso dai singhiozzi.

Vagò barcollando per il paese, accompagnato dal rumore dei suoi passi un po’ zoppi e scrutato dalle finestre chiuse, nella nebbiolina un poco schiarita dalla luce soffusa dei lampioni.

Quando arrivò al limite del centro abitato, festeggiò il traguardo con una capriola nel cemento. Si rialzò con la caviglia destra mezza gonfia, si accertò di non aver rotto la bottiglia di novello e prese la via della campagna.

Si immerse nella nebbia, stretto nel giaccone di pelle, cercando di indovinare il sentiero.

Quando fu completamente perduto, si imbatté in una recinzione e la seguì passo passo, fino ad arrivare a un cancello di ferro, che una volta doveva essere stato blu.

Si sedette di schianto, stanco morto, tolse un fazzoletto di tasca e si soffiò il naso, prese la bottiglia di vino e la rigirò tra le mani. Il pensiero di avere ancora da bere gli strappò una risata nel pianto. Svitò il tappo e bevve una lunga, rinfrancante sorsata.

Dopo che si fu sciacquato ben bene la bocca, mandò giù e sentì il liquido aspro scendere dalla gola fin nello stomaco. Appoggiò la schiena al cancello e riprese a piangere, ma solo dopo essersi dato due pugni leggeri sulla tempia, più per svegliarsi che per punirsi.

Una specie di brontolio alle sue spalle sovrastò il pianto. Si alzò di scatto e cadde all’indietro.

Da dietro il cancello, emerse nella nebbia una figura oscura e ringhiante. Vedeva giusto la mole della bestia e il baluginio sinistro degli occhi e dei denti. Poteva sembrare un orso, o un lupo mannaro.

Era un cane Terranova, invece: nero, gigantesco, minaccioso. Si passò le dita sugli occhi per essere sicuro che non si trattasse di un incubo o di un’allucinazione etilica. Il cuore pompava come un motore ad alcol. Riaprì gli occhi: il cane c’era ancora, la figura oscura continuava a ringhiare.

Quando l’animale saltò, fermandosi a un millimetro dalle sbarre, per poco non lo fece morire di infarto.

Ma il cane non poteva superare il cancello.

Quella barriera di metallo fuso, con la vernice scrostata, era insormontabile anche per una bestia sputata dall’Inferno, per mangiarsi gli ubriachi nel contrappasso dantesco della notte.

E lui era il primo a sostenere di meritarsi l’Inferno.

Si rialzò, si ripulì alla bell’e meglio e fissò la bestia negli occhi. Questa abbaiò e il suono rimbombò oltre la nebbia, per tutta la campagna.

«Hai ragione», disse al cane «hai ragione tu: sono proprio uno stronzo e tu faresti solo bene a mangiarmi. Non solo perché questa è casa tua e sono venuto a disturbarti, ma proprio perché sono uno stronzo.»

Il cane rispose con un ringhio soffocato, come il respiro di un asmatico. Lui protese la mano verso il cancello: «stai buono, su!» disse piano.

Una bocca come quella di un alligatore si protese in orizzontale attraverso un pertugio e schioccò. Riuscì a tirare via la mano per una questione di millisecondi, ma cadde di nuovo all’indietro. Era riuscito però a conservare ancora entrambe le mani.

Il cane tirò via la testa dal pertugio, senza rompersi il collo e senza nemmeno rimanere incastrato, segno che la manovra era stata rodata in innumerevoli tentati omicidi, o perlomeno lesioni gravissime.

Lui fece per rialzarsi, ci ripensò e bevve invece una sorsata di vino dalla bottiglia, che in tutti i capitomboli non gli era mai caduta di mano.

Poi si rialzò e si pulì la bocca con la manica del giaccone.

Le lacrime ripresero a inondargli gli occhi.

«Dai» urlò «uccidimi! Sbranami! Fammi a pezzi! Sono solo un miserabile pezzo di merda!»

Il cane abbaiava feroce e sbuffava e saltava su sé stesso, girava come una trottola schizzando intorno litri di bava vischiosa.

Anche lui perdeva umori dal naso, che si spandevano sul giaccone mischiati alle lacrime e cadevano a terra.

«Sono stato tutta la sera a sorridere al mio amico che è stato promosso e tra poco si sposa!», urlò contro il cane. Quello continuava a saltare e a infilare il testone nel pertugio, mordendo il vuoto «E invece avrei voluto strozzarlo», disse e sputò in terra. «perché quell’infame lo hanno promosso al posto mio!»

Si lasciò andare all’indietro e per poco non cadde di nuovo.

«E pure la sua fidanzata… moglie… io ero innamorato di lei, ma lui fu più sveglio e più svelto a provarci e io rimasi con un pugno di mosche!»

Smise di urlare, abbassò la testa, tirò sul col naso.

«Non l’ho detto mai né a lui né a lei», sussurrò «ma sono quasi tre anni che mi brucia», disse, ricominciando a urlare.

Le grida si persero nella notte e nella nebbia. Il cane aveva preso a sbattere contro il cancello e sebbene questo fosse pesante e invalicabile, la catenella con cui era legato non lo era per niente e cominciava a cigolare.

Lui non se accorse: era troppo occupato a piangere e a bestemmiare contro l’amico, la fidanzata dell’amico, il capoufficio, il destino, il padreterno, una nutrita schiera di santi. Ma nessuno di questi signori era in vista e sebbene alcuni tra loro potessero essere in agguato nella nebbia, ad ascoltare il suo monologo c’era solo il cane nero. E questo si agitava e sbraitava e sbavava e latrava all’unisono con il ragazzo in lacrime, come in una gara di improvvisazione teatrale.

Ad accompagnare lo spettacolo, a guisa di violino scordato, il cigolare della catenella, sempre più stridulo e ossessivo, nonostante venisse bellamente ignorato dai due.

«Coraggio! Sbranami!»», urlò l’ubriaco e il cane, a giudicare dal lampeggiare degli occhi iniettati di sangue, sembrava proprio intenzionato a esaudire le sue richieste.

Con un ultimo scrollone, la catenella saltò.

Pure il cane saltò, proprio sul petto del ragazzo in lacrime, che lo accolse con un urlo di terrore che gli snebbiò la mente per una frazione di secondo, mentre cadeva, sopraffatto dalla mole scura della bestia. D’improvviso egli non ebbe più tanta più voglia di finire sbranato.

Anzi pensò, in verità, che morire sbronzo fradicio sbranato da un cagnaccio in aperta campagna, in una notte di nebbia, fosse un modo abbastanza idiota di andarsene.

In un estremo tentativo di difesa, mise davanti al volto le braccia incrociate, per parare gli assalti della bestiaccia.

La tenaglia delle mascelle, però, non si chiuse sulle sue braccia ma poco prima della sua faccia.

Incredibile: era illeso!

Il cane volò via di contro balzo, come un centravanti d’antan, e prese a girare in tondo ululando alla luna, che doveva pur essere da qualche parte, in cielo, dietro la coltre di nebbia.

Il ragazzo si tirò su e strisciò di spalle verso il cancello, chiuse gli occhi e si rannicchiò. Il cane smise di ululare, si avvicinò scodinzolando. Dette un colpo di muso alle braccia di lui, che timoroso aprì gli occhi. Il cane gli stampò una leccata all’insù per tutta la faccia, si accucciò e si mise a uggiolare. Il ragazzo aspettò che il cuore gli tornasse nel petto, dalle guance dove era salito, poi grattò il testone dell’animale, che sembrò gradire.

«Bravo cagnone», disse piano.

Recuperò la bottiglia e bevve una lunga sorsata. Aveva smesso di piangere.

Anzi, sulla faccia faceva capolino un sorriso.