Racconto di Davide Cibic

(Prima pubblicazione)

 

Quando succedono queste cose, lo so, non è elegante né acconcio, ma mi tocca sedermi, anzi stravaccarmi su una panchina, in genere la prima che trovo, fissa o mobile che sia, slavata o variopinta, legnosa o ferrosa, a falde oppure no, insomma non mi attardo in discriminazioni e ammennicoli vari come invece farebbero i miei boriosi interlocutori: ho solo bisogno di riposare le mie misere membra e di riavermi da tali enormità.

In genere non ci metto tanto, e del resto non ho problemi di tempo, ne ho a iosa, tant’è che mi sorprendo non di rado a spargerne tra vicoli e aiuole erbose.

Le critiche che mi vengono mosse da questi cosiddetti signori, e da cui devo immancabilmente riprendermi, sono di tale sagacia e pertinenza da scarmigliare buona parte della mia chioma. In sintesi, affermano costoro, io sarei troppo … leggera. Dicono proprio così, leggera, senza farcire di ulteriori specifiche, e se lo fanno in genere mi affibbiano una pletora di sinonimi dalla indubbia pesantezza: sei effimera, non hai sostanza (e la forma?), sei impalpabile e fumida come un tizzo madido. Soprattutto, cara signora, sei tutto ciò che non è essenziale.

Suppergiù, arretro di fronte a tali nequizie, ma non più con la stessa decisione di qualche anno fa, quando per avventura iniziai il mio vagabondare in mezzo a panchine e sicumera.

Il primo appunto da fare è che non mi reputo affatto impalpabile: in questo senso vanno alcune egregie testimonianze, su cui però non mi dilungherei. Poi, non digerisco per nulla la diceria che io non avrei sostanza. Credo invero di aver molta materia prima, di traboccarne per giunta, materia sostanziosa che a tratti persino espongo, seppur distrattamente, nelle conversazioni che sovente prendono piede in mia presenza. È innegabile cioè che io parli e discorra pressoché di qualsiasi argomento, certo non sempre con grossa cognitio, ma sfido chiunque ad eccellere in ogni piega dello scibile. Quel che faccio io, purtuttavia con malcelato pudore e riserbo, è donare agio e conforto ad ogni creatura blaterante. Che si tratti di ricette di cucina o di leggi della fisica, di costumi tribali o di disquisizioni sull’inaridimento globale, insomma quel che sia l’oggetto del contendere o del dibattito in corso, io ammorbidisco i cipigli e stempero le spigolosità. Non senza immodestia, potrei dire che do leggerezza e gaiezza, invito a pensar di meno e a sognar di più, incito a rallentare, a decelerare ansiti e idee, invoglio a contemplare l’armonia del mondo.

Magari con un po’ di civetteria, che non guasta mai e che irride a frenesia e a occhi che strabuzzano, mi accosto ai miei queruli commensali e mi metto quindi a dispensare.

Se mi parlano di guerra, io depongo le mie armi, pochette e foulard, e cito persone e Paesi che hanno scatenato la pace. Se mi parlano di educazione, io riverisco e ringrazio senza pause, almeno finché non m’implorano di smettere. Se mi parlano di religione, accenno alle mie esperienze sacramentali ed evoco gli abiti talari indossati all’epoca, che di sicuro mi facevano una figura non meno accattivante di quella attuale. Non è raro infine che, a fronte di diatribe sui grandi filosofi dell’antichità, io non disserti ma diserti, beninteso con sfumato candore, e mi metta piuttosto a computare i migliori film disimpegnati dell’ultimo decennio.

Ebbene, cosa c’è di leggero in tutto questo?

Specifico ad onor del vero che, quando i discorsi si fanno troppo poderosi e pretenziosi, lo ammetto, un po’ mi adombro; più che altro non condivido il dover rincorrere tanta vacua complicatezza. Pare sia un vezzo umano, l’arrovellarsi tra vanagloria e verbosità; lo potete ben immaginare, non sempre capisco tali elucubrazioni, sovente perdo il filo ma mai la mia proverbiale compostezza: del resto, che necessità c’è di capire tutto, sempre e comunque?

Non ce n’è bisogno alcuno, ecco. Ne parlava Calvino – vogliate perdonarmi la fine citazione – laddove discorreva semmai del bisogno di sfuggir alla pesantezza, e in che modo? Sforzandosi di vedere il mondo sotto un’altra ottica, come fa Perseo volando sui suoi sandali alati. In tal senso sì, mi considero a pieno titolo leggera.

E direi di più, di cosa abbiamo veramente bisogno, al fine di sbriciolar tale pesantezza, se non di un sorriso, placido e immutabile, che ammanti le cose della nostra vita?

Alle strette quindi, di cosa vengo realmente tacciata da questa ghenga di individui? Forse del fatto che sorrido amabilmente, e mai con sarcasmo, ovunque io vada, chiunque io incontri?

Ebbene sì, io sorrido a destra e a manca, è forse una colpa questa? Se è una colpa, abbiate l’accortezza d’indicarmi la mia prigionia, mi accollerò ogni onere di spesa in tal soggiorno, e lo farò con garbo e simpatia, e ancora una volta rifulgerò nella mia ormai indefessa spensieratezza. Forse quelle tavolozze dipinte al centro della piazza del paese, sono esse l’androne principale verso la mia nuova residenza? Del resto, come già accennato, il tempo mi è debitore, quindi non avrei angustia nel programmare periodi persino molto lunghi, se necessari all’espiar la pena.

Sì, quindi, io sorrido pressoché a chiunque, al questurino, al passante, al barman allampanato, a chiunque volga verso di me il suo sguardo e brami l’incrociar il mio tragitto, e soprattutto arda sperimentar quella serenità che, ormai ne sono conscia, io posso erogare. È forse, questa di cui vado parlando, leggerezza fine a se stessa, come sosterrebbero senz’altro i miei più arcigni critici, benpensanti e custodi delle cose essenziali?

Sì, io sorrido dunque, e vagolo così, tra facce contrite e tanta malinconia; me ne vado così, frammezzo a sussiego e a blande smorfie di scherno. Pesticcio la pavimentazione urbana con i miei tacchi sempre altissimi, del resto non ho mai sopportato i sandali; con cura evito i sanpietrini, e per farlo invado la corsia di marcia scompaginando anche i migliori automobilisti; la gonna è sempre corta; il foulard colorato, dei colori più vividi, di regola impreziosisce le spalle ben tornite e mi turba, con quel delizioso vellichio. Che piaccia o no, saluto con foga ed entusiasmo anche chi sta dall’altro lato della strada, mi soffermo per interminabili istanti a rimirare il volo di un aereo e vieppiù quello di un uccello. Sorrido ai colori del cielo e al gorgoglio satollo delle fontanelle in mezzo alla via. Non mi curo di chi mi sguarda incredulo mentre respiro a pieni polmoni affacciata alla balaustra sul fiume. Ammiro intenerita ogni graffito, ogni dipinto, ogni minima espressione artistica che incroci lungo il mio tragitto, tra stanze e palazzi, tra vicoli e marciapiede; in particolare gradisco i disegni, soprattutto, lo ammetto, se simili ai miei dipinti, quelli che se ne stanno sulla piazza del paese.

Infine, non eludo il desiderio di volteggiare, che appago spesso quando cammino, come se stessi architettando chissà quale scenografia; non lo faccio perché gli altri mi vedano, lo faccio e basta, decorando il tutto con la mia voce argentina, che i critici invece sostengono esser stridula ed indecorosa.

Ebbene, li ho più volte citati, tali miei critici, persone meste e di glabri sentimenti, ma la mia socialità, perdinci, non si esaurisce certo in questi signori. Devo denotare cioè che vi è anche una nutrita rappresentanza di persone per bene e senza malizia, ed è solitamente qualcuno di loro che mi domanda dove stia andando, se il mio vagar abbia o meno una meta nota. Lo so, sono superba nell’almanaccare, del resto ho molto tempo in saccoccia, e m’invento quindi un veicolo parcheggiato, in genere una berlina grigio perla, o un ferroviere che mi attende sotto la pensilina. Sapete, non insisto più di tanto nelle fandonie, non è il mio ruolo, anche se non c’è nulla di più gradevolmente leggero. In realtà, quando l’ora si fa tarda non resisto, altro che parcheggi e ferrovieri: mi accerto che nessuna mi veda, levito fino ai miei dipinti nella piazza del paese, e scalza mi ci tuffo.

Ad ogni mio ritorno fortuna vuole che ritrovi sempre le mie scarpe con i tacchi altissimi.

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