Racconto di Carmelo Modica

(prima pubblicazione – 6 aprile 2020)

 

Mentre suo marito abbanniava la merce, Calogera Biancofiore, proprio sopra la carnezzeria, urlava da più di un’ora la nascita dell’ultimo dei suoi figli.

Nessuno, però, ebbe modo di sentirla malgrado le sue urla squarciassero l’aria e smuovessero la terra.

La mammana sospirò:

“All’undicesimo figlio ti uscirà pure l’anima dallo sticchio”.

Quel giorno, in prossimità della festa di Santa Rosalia, rigorosamente dopo che la mammana ebbe sistemato le banconote in sacchetta, previo scrupoloso conteggio che avrebbe fatto invidia al più esperto dei banchieri, nacque appunto Norman Rosalino che venne fuori bello pasciuto e con tante piegoline di carnuzza tenera. La mammana lo taliò e lo soppesò di sopra e di sotto e per fortuna non trovò traccia dell’anima di sua madre.

“T’a facisti franca stavota”.

Gera non riuscì a trattenersi perché poco tollerava le osservazioni di ‘GnàTudda che riuscivano a incarognire anche il più mite dei cristiani e, con un soffio che fece esplodere tanta stanchezza e gli scampoli del dolore, senza riguardo né del neonato né dell’altra figlia che aveva assistito con due occhi così, disse:

“A mmia mi piace ficcare cu me’ marito.”

Fu come un tuono che improvvisamente zittì la mammana. ‘GnàTudda non poté che fare cenno alla piccola Sharon Catena di avvicinarsi. Le disse di andare dal prete, di dirgli che sua madre aveva sfornato di nuovo e che doveva necessariamente venire per assicurare a tutta la famiglia che la sua anima fosse salva ma non ancora in grazia di Dio.

“E se ti chiede a cu’apparteni dicci a Giuvannuzzu l’Affilacuteddu, accussì lo capisce chiddu, ormai è talmente solito ca cunfunnile grazie dintra le mutanne della cammarera, con le stimmate di ddupoviru Cristu chi avi ‘nta chiesa!”

‘GnàTudda ottemperava ai suoi doveri non del tutto convinta che l’anima avesse deciso  di starsene dov’era e col sospetto che avrebbe lasciato Gera in preda alle brame del diavolo.

“Basta ca ci attuppa ‘u purtusu!” – pensava.

Nel frattempo Sharon Catena arrancava per le viuzze cercando di non scivolare sull’acqua che scolava dalle balate o sui cespi di lattuga decapitati o sui gambi barbuti dei finocchi. Era tutta trafelata e, non ancora cosciente di quanto stesse accadendo, appena ebbe girato nella stratuzza, dopo aver tuppuliato alla porta del prete, comprese che forse solo i fratelli più grandi avrebbero potuto darle una spiegazione non appena li avesse sopresi lontano dagli adulti.

Sharon Catena lo vide tutto sudato, con un fazzoletto in mano che percorreva chilometri sulla fronte, la bocca, il collo, la nuca. Di dentro si stava consumando un’altra camurrìa: Sharon Catena sentì le urla ma non ci fece caso. Riuscì a biascicare quanto le aveva raccomandato la mammana (se l’era ripetuto per tutto il tragitto da casa, povera criatura!) avendo cura di non farsi accorgere mentre spiava il silenzioso terremoto che si stava scatenando dentro la casa del prete.

Quest’ultimo preparò l’ennesima truscitedda. Lasciò la cammarera in un bagno di sudore e priva di sensi alle cure della mammana dell’Albergaria, che fece venire apposta perché quel giorno, giusto giusto a tutti ci veniva in testa di partorire.

“Dicci camurìu”.

Col passo felpato e furtivo – come se potesse sperare di non essere notato! – seguì Sharon Catena mentre per un conto teneva in un braccio ‘u nnuccente, assicurandosi tuttavia che avesse sempre uno spiraglio dal quale respirare e, per un altro, rivolgeva silenziosamente una preghiera a Sant’Anna, perché la puerpera che aveva lasciato a casa presto tornasse ai suoi doveri di perpetua. Lo colse improvvisamente l’istinto di tenerlo con entrambe le braccia ma capì che sarebbe stato opportuno usarne solo uno.

Entrò a casa di Gera tutto inquieto e con gli occhi spiritati. Posò a terra la truscitedda. La svolse.

“Trovaci un nome” – disse, ma fu solo un lieve sussurro che nessuno lì dentro aveva sentito. ‘GnaTudda fece una strana smorfia e tornò ai suoi bacili e ai panni intrisi di sangue, ben sapendo che opportuno era scegliere il silenzio.

Il prete lo mise accanto a Norman Rosalino e sospirò. Poi, con voce che avrebbe potuto competere con quella dei banniatori, il tono sentenzioso che era solito usare durante le omeliee, l’estro recitativo che lo possedeva solo durante le rappresentazioni della Quaresima, aprì la finestra e urlò:

“Due gemelli sono!”.

Gera Biancofiore sbiancò ma non disse nulla: il parrino sapeva essere grato. Come sempre dopotutto. Sharon Catena si augurò che i fratelli avrebbero saputo trovare una spiegazione a quest’ultimo mistero. E ‘GnàTudda, dal canto suo, suggellò la nascita dei gemelli con una sonora ma ignorata scorreggia.