Lirica di Fabrizio Sfrattoni
(Prima pubblicazione – 16 aprile 2020)
Questa mattina, scendendo i gradini sdrucciolevoli dell’anima,
dove sedimentano i ricordi, da lontano ti ho vista
con il grembiule profumato dalle diciotto erbe del Gran Sasso.
È il primo ricordo che ho di te!
Risalendo, scavando tra le macerie sbiadite del vissuto
ho pensato a Gabriela Mistral, la maestra
che arrivava nei remoti paesi a portare cultura, insegnamenti
e donava libri ai ragazzi per indirizzarli lungo il precipizio
della coscienza, ove saltandoci sbocciano ali e occhi nuovi.
Mi appari così nel ricordo!
Torno apparentemente sobrio a quei primi manoscritti,
alla scoperta dei tuoi intimi pensieri, a quel dolore
che scioglieva le parole e le lacrime risalivano i fogli
per sgorgare in una sorgente perpetua di emozioni.
Era come accendere un lume sotto il bivio della notte,
trattenere il buio e il fiato sino all’ultima riga.
Poi con quel lume e con la penna iniziasti a scavare
arrivando sino alla faglia dei ricordi sospesi
tra la polvere e l’indifferenza del vissuto di queste montagne,
riportandolo alla luce congelato, statico.
Non aveva visto più il sole.
Vissuto, lasciato a Morire nei ricordi di ognuno!
Da quel giorno la tua penna ha riesumato i nostri carbonai,
ha riaperto i nostri sentieri, ha riacceso la fame, il dolore, la miseria.
Anche la gioia, i sentimenti, la bellezza delle nostre genti
che vivono nuovamente in quelle pagine che sono un monumento.
E nelle vene di quel momento scorre sangue di ognuno di noi.
Hai abbattuto l’albero acre che copriva il bosco,
sprigionando il fumo immaginario delle cotte di carbone,
I colpi delle “manere”, il richiamo degli ovini, le pialle degli arcari,
scultori e pittori analfabeti, i passi intramontabili
oltre il sole, a piedi scalzi. La sola ombra… unica calzatura!
Bastava un piccolo lume acceso per vedere l’incendio
di mani e fronti di uomini e di donne.
Mani, sudori delle nostre genti! Figli della stessa terra!
Nessuno mai lo aveva scritto! Hai aperto la diga della terra
che tratteneva il ruscello a scorrere sotto i nostri piedi,
alimentato dalle piogge che tanti lustri e mani avevano modellato.
Avvicinando l’occhio a quel ruscello odo Raffaele cantare gli stornelli,
vedo la transumanza della fame, la fame di un bambino
spaventato, diventato troppo presto uomo.
Vedo lo scintillare della zappa rivoltare la terra per deporre il seme
che un giorno avrebbe dato sollievo alla fame, alla fatica.
Vedo le mani delle donne impastare pane per i figli del mondo.
Come sembrano lontani quei giorni… così distanti…!
Quelle genti, quei padri, le Madri zappavano, impastavano per tutti noi.
Non sempre di gratitudine e affetto abbiamo dato loro un fiore.
Ti vedo risalendo l’ultimo gradino nelle serafiche, appassionate
passeggiate con l’uomo della tua vita: due corpi ma una sola ombra.
Due navi …una sola vela, due steli…un unico fiore.
Una vita come le pagine di un libro esposte al vento
che scorrono troppo in fretta…. con la parola fine.
E il vento si placa, il libro si chiude.
Capiscimi…l’importante è averlo letto insieme.
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