Racconto di Marcello Tassi

(Prima pubblicazione)

 

 

La guerra era finita un bel giorno d’autunno. Un giovane fante aveva infilato un mazzo di fiori nella bocca del cannone, tutti si erano levati gli elmetti versandoci del vino e nelle strade le ragazze si erano messe a ballare. Dal fronte avevano fatto ritorno i soldati e ovunque si festeggiava sospinti dalle note diffuse dai grammofoni che la gente lasciava sui davanzali delle finestre. Nell’aria non si respirava altro che musica e anche se sui campi giacevano freddi ancora molti compagni, fratelli e figli, la gente proprio non riusciva a trattenere i sorrisi.

Non appena alla radio si era diffusa la notizia della fine delle ostilità, i due amici avevano abbandonato il fucile in un fosso ed erano corsi a rimediare un pezzo di carta, scrivendosi quando e dove si sarebbero incontrati. Entrambi avevano indicato come luogo l’osteria dei tempi andati, quando nessuno parlava ancora d’orgoglio e trincee, bombe e baionette evocavano i racconti dei nonni e gli unici nemici di quei giorni erano il tempo e i pomeriggi senza baci.

Il primo dei due amici, che si chiamava Riccardo, arrivò puntuale e si sedette a un tavolaccio. All’oste ordinò una bottiglia di rosso, pane e salame a volontà. Arturo giunse poco dopo. Addosso aveva ancora la divisa un poco sgualcita e striata di fango e ai piedi calzava stivali impolverati. Si abbracciarono e piansero. Piansero a lungo, scambiandosi parole che in mezzo alle lacrime assumevano forme strane, confuse, come quando da dietro un vetro si scorgono le sagome di persone nel mezzo di un temporale. Quando gli occhi ebbero terminato il loro monologo, i due amici versarono il vino e brindarono al ritorno, alle canzoni e alle donne che finalmente avrebbero amato di nuovo.

«Quanti anni sono trascorsi dal nostro ultimo incontro? Quanti? I primi giorni riuscivo ancora a contarli, ma poi ho perso il conto…»

«Io non l’ho mai tenuto in realtà. So che era un giorno di maggio di quattro anni fa. Non ricordi? Ci salutammo alla stazione. Tu eri già stato arruolato e salutavi tutti dal finestrino abbassato della carrozza, io invece avrei dovuto attendere ancora due settimane prima di dare un bacio a mia madre e dirle di stare tranquilla. Tu stavi con quella ragazza, com’è che si chiamava?»

«Ah si, Marilena! Che donna… Ho saputo che si è sposata, circa un anno fa»

«L’hai scampata bella…»

I due finirono presto la bottiglia di vino, ne ordinarono un’altra e divorarono tutto il salame che c’era. Da qualche parte nell’osteria una giovane voce di donna intonò una melodia d’amore. Tutti interruppero le proprie chiacchiere, ascoltando rapiti quel magnifico canto che parlava di addii, di un fazzoletto bianco e del sospiro di una dama, che per anni attendeva il suo uomo salvo poi riabbracciarlo tempo dopo, di ritorno dalla guerra. Finita l’ultima strofa il silenzio si fece ancora più profondo e qualche istante dopo dai tavoli si levarono applausi. Arturo si levò in piedi e scorse una bionda che baciava sulla bocca un giovane dai capelli scuri e le braccia forti, le cui guance erano rigate dalle lacrime. Si sedette e incrociò il sorriso dell’amico.

«E tu? Hai più sentito la tua Carlotta?»

Carlotta era stata l’ultimo amore di Arturo.

«Ci siamo scritti fino a poco prima della rotta su Roccambrata – rispose carezzando la manica della giacca -. La sera prima dell’attacco le scrissi che forse era meglio se mi dimenticava. La mattina seguente, mentre dal buio sopra di me saettavano i bengala e la terra ha iniziato a tremare, ho maledetto me stesso per quelle parole».

Arturo finì il bicchiere e in silenzio si versò un altro po’ di rosso. Poi tornò a fissare l’amico. Quattro anni erano trascorsi.

«Ricordi quel giorno in cui l’anziana custode del parco impazzì e cominciò a tirarci dietro le sedie?»

Riccardo ricordava eccome. Era un pomeriggio di sole di tanti anni prima e gli studenti pascolavano all’ombra degli alberi in via San Leonardo, dove una signora del quartiere si prendeva cura di aiuole e cespugli. Una risata di troppo, forse un commento pronunciato a volte alta, chi se lo rammenta. La vecchia sollevò una sedia di legno e la scagliò verso il gruppetto di giovani, i quali iniziarono a fuggire ridendo a più non posso. E poi un’altra e un’altra ancora, finché nel parco non rimasero che i due amici. Uno di loro aveva guardato la signora negli occhi, scorgendovi un’infinita tristezza.

«E la partita a pallone in piazza alle quattro del mattino? Eh, la ricordi?»

«Come potrei dimenticare il più grande furto che l’umanità abbia mai subito?»

«Quel rigore era grosso quanto una casa! E io lo calciai con rara maestria»

«In porta stava un brocco… segnasti solo per quello, non credere…»

Aveva ragione Riccardo, il rigore non c’era. Ma Arturo non esagerava sul fatto di essere un autentico fenomeno col pallone tra i piedi.

«…»

«…»

«Alla fine hai terminato quello scritto che iniziasti nelle ore di storia dell’arte?»

«Macché…» sorrise Riccardo esaminando il fondo del bicchiere. «Quelle pagine riposano ora da qualche parte lungo il fronte orientale. Un giorno qualche esaltato ha pensato bene di bombardarci a bordo di un Albatros alle cinque del mattino. Devo aver perduto il taccuino mentre fuggivo con il viso ancora avvolto dalla schiuma da barba e i mutandoni in bella mostra! Pensa, un capolavoro disperso… Tra qualche anno lo troveremo pubblicato in libreria sotto altro nome ed io non potrò fare nulla per rivendicarne la paternità!»

«Balle! L’avrai lasciato nel cassetto di qualche donna del mestiere… Ammettilo, vecchio ingordo che non sei altro!»

«Se la memoria non mi inganna era qualcun altro che faceva le serenate alle giovani nella via che corre ai piedi dello studentato. E ogni sera a una diversa! E quando quella coi capelli rossi, che si chiamava… Lucia! Quando quella Lucia, a cui dedicasti il più dolce tra i canti, presa dall’euforia, ebbe la brillante idea di confidarsi con la morettina dal bel nasino all’insù… Alla quale, giusto poche ore prima, donasti un mazzo infinito di rose rosse come il fuoco. Chi si può dimenticare quella mattina, quando entrambe ti vennero a cercare al caffè degli artisti per dartele di santa ragione! E noi giù a ridere…»

Riccardo cercò di controbattere ma come poteva? In effetti quel giorno gli era proprio andata male. E la notte la passò in bianco mentre l’amico, imbracciando la chitarra, era corso sotto il suo balcone ad intonare una canzone di scherno.

Ne avevano passate tante insieme. Ma quanto era splendido, adesso, ritrovarsi e ricordare? Quel vento che aveva scompigliato i loro capelli nelle fresche giornate di primavera forse non aveva mai smesso di soffiare. Si era solo preso una licenza, giocando a nascondino tra i portici e le piazze svuotate, nessuno più ad inseguirlo, poche gonne da alzare ma tanta polvere da spazzare.

I due amici ridevano e scherzavano, il freddo della trincea e l’odore di terra nuda erano rimasti laggiù, da qualche parte tra il nord e il sud, l’est e l’ovest, meridiani e paralleli, «ma dove diavolo abbiamo combattuto fino all’altro ieri? Non ci pensare amico mio, bevi su, bevi che di vino ancora ce n’è! Ordiniamone un altro po’, si esatto, come al Grand Hotel dove danzammo tutta la notte scambiandoci le ballerine. Quanto era bella la mora! E che cosce la bionda! La migliore te l’aggiudicasti tu. Ma che dici, sei sempre stato tu il migliore e sempre il meglio conquistasti! E quella volta che, piuttosto alticcio alla festa in giardino, iniziasti a seguire con lo sguardo un gran bel fondoschiena, un’opera d’arte scolpita da un maestro, si certo non c’è che dire, ma che poi si scoprì essere il sedere di tua sorella!»

Ai due amici mancava il fiato. Quanto era loro mancato, del resto, il respiro in tutti quei lunghi inverni. Ed ora erano tornati per mai più rinunciarvi.

Le loro risate si interruppero però piuttosto bruscamente. Qualcuno aveva attaccato un vecchio canto militare. La voce era partita sommessa, in punta di piedi, per poi acquisire vigore man mano che la strofa proseguiva. Cavalli e generali avevano cominciato ad avanzare risoluti verso le linee nemiche e dietro di loro, piano piano, seguivano i fanti, i trombettieri, le fanfare e l’intero esercito in tenuta d’attacco. Dalla locanda altre due, tre, quattro, otto voci si unirono presto al misterioso cantore che inneggiava nell’ombra e in pochi minuti fu tutto un tripudio di uomini che, quasi come si trovassero realmente in quelle lontane contrade battute dal vento e solcate dai proiettili e dalle granate, marciavano a suon di gole e sudore. I due amici furono gli unici a non unirsi alle focose note, i pugni di Arturo rimasero ben piantati sul tavolo, quelli di Riccardo, invece, conserti al di sotto del ruvido legno tarlato. Lo stesso Riccardo si era voltato verso il resto della truppa e osservava in silenzio, Arturo scrutava pensieroso il fondo del bicchiere. Un individuo robusto e dalle guance rubizze, trascinato dal fervore del canto e dal calore pulsante dell’alcol, fece scivolare il suo sguardo sui due amici, accucciati quasi volessero passare inosservati al cospetto di quegli occhi feroci, iniettati di sangue, come spesso durante la battaglia immaginavano le espressioni dei nemici, nascosti dietro alte barricate, confusi nella nebbia e nella paura di quelli che invece all’aria aperta correvano verso linee invisibili in una fitta foresta di proiettili e urla. Le sue mani nodose da contadino inforcavano due enormi boccali colmi di birra schiumosa e già bevuta per metà, ciò che rimaneva dondolava pericolosamente, mentre il bruto seguitava a gorgheggiare. Riccardo e Arturo iniziarono a sentirsi nudi, indifesi, e di istinto portarono il braccio destro alla spalla opposta, dove per quattro lunghi anni il loro più fedele compagno era stato in equilibrio su di un laccio di cuoio consunto. Trovando il nulla, lanciarono un’occhiata alla sala e tra il fumo e la confusione notarono, non senza un velo di inquietudine, come tutti, ora, li stavano fissando. Chi spiava i due amici da dietro una colonna, chi dal bancone, chi dalla porta che conduceva al bagno, chi dai tavoli e addirittura, così parve ad Arturo, chi da fuori l’ingresso dell’osteria. Il coro copriva finanche i pensieri, le voci salivano e scendevano, gli occhi ardenti della truppa li squadravano ribollendo di chissà quali intenzioni. Ad un tratto il grido unico che era diventato quella specie di inno alle armi si troncò di colpo. Da un antro barcollò un individuo dalla barba incolta e i lunghi capelli arruffati, il quale si diresse al centro della stanza, senza staccare per un istante gli occhi annebbiati dai due amici. Qui il suo sguardo brillò di un’inquietante lucidità.

«Onore a voi, servitori della patria»

«Onore a voi!» urlarono ancora più forte come un sol uomo gli altri soggetti, portandosi i boccali alle labbra.

Il silenzio avvolse l’osteria. Qualche secondo e tutti si sedettero ai propri posti, riprendendo a dire il vero più sottovoce di prima le proprie conversazioni. Il canto di guerra e il successivo brindisi rivolto ai due eroi aveva svuotato quelle persone, liberate forse, fatte sentire migliori. Molti di loro avevano probabilmente combattuto e si trovavano lì esattamente come i due amici e quella sorta di rito glorificatore aveva forse il compito di celebrare anche loro stessi, reduci dal fronte con la vaga impressione di avervi smarrito qualcosa.

I due amici si fecero seri, ringraziarono l’oste quando poggiò sopra il tavolo una damigiana. «Questa è offerta dalla casa».

Riccardo guardò in basso, incantato dal bottiglione di vetro con all’interno il nettare cremisi d’un rosso bello acceso. Minuscole bollicine quasi impercettibili salivano dalla piatta base al collo slanciato di quel recipiente che aveva sempre conosciuto molto bene, ma che ora osservava come fosse la prima volta.

«Sai – iniziò a raccontare all’amico – capitò un giorno di fare ritorno senza centocinquantasette compagni. Eravamo poco meno di duecento quando ci lanciammo quella mattina oltre i parapetti, per conquistare la prima linea nemica. Quella sera bevemmo fino a sfinirci. Le bottiglie di vino ci erano state inviate calcolando il numero totale della compagnia. Per tutti fu doppia razione».

Una lacrima gli scivolò giù, tuffandosi nel legno. Aveva compiuto il percorso inverso a quello delle piccole bolle che continuavano a salire, fluttuando beate nel rosso.

«Dalle nostre parti – rispose Arturo – il vino era stato bandito. Un tenente si era ubriacato dopo aver perso quasi tutta la sua compagnia, e nel cuore della notte si era messo a correre sparando in direzione dei nemici. Era tre giorni che non udiva uno sparo sull’altipiano. La strana quiete che si era instaurata, e che senza dubbio stregava anche ai nostri nemici nascosti tra gli alberi, finì con quel gesto di autentica disperazione. Da lì in poi ricordo solo fuoco e uomini che cadevano. In quei giorni mi feci anche un’amica. Si chiamava Fiat Revelli modello 1914, ma io la chiamavo Gertrude. Era nera e severa come una monaca e terribile come la più bella delle amanti. Calata l’oscurità, le cingevo la vita e la portavo da qualche parte con me. Una volta isolato da tutto e da tutti, la carezzavo, spalmandole grandi quantità di grasso lungo quella sua gamba sinuosa e scura come la pece, massaggiandola da cima a fondo e sussurrandole dolci parole d’amore. L’indomani avrei avuto bisogno delle sue risate, e quello era un modo per tenermela buona, per far sì che mi rimanesse sempre fedele».

Tacquero i due amici. L’intera osteria ora taceva. La luce calda che fino a pochi minuti prima gettava nell’aria veli d’oro e il calore dei corpi della gente avevano mutato. Figure silenziose bevevano curve dai propri bicchieri e vaghi sentori crepuscolari iniziavano a farsi largo alla volta del bancone, per ordinare anch’essi qualcosa. Come se ad un tratto, svanita quell’aura di gioia e festa che aveva caratterizzato quei giorni successivi all’inizio della nuova vita o alla fine della vecchia, il presente bussasse ora con fredde nocche alle porte dell’anima. I due amici si guardarono. “Diamine, quanto è dimagrito Riccardo, pensò Arturo”. E i suoi occhi… Non se li ricordava così grigi e vacui. Come se si fossero staccati per riposare da qualche parte, perduti per sempre. Al loro posto qualcuno aveva cucito due bottoni da paltò, come quello che danno ai soldati per ripararsi dal freddo nelle lunghe notti di veglia.

“Che strane quelle due fossette che si formano agli angoli della sua bocca”, pensò invece Riccardo. Arturo non le aveva mai avute. O forse sì e non ricordava.

«Che farai adesso?» chiese uno dei due.

«Brucerò questa divisa» gli fece eco l’altro. «Poi correrò alla Villa Orientale. Chissà se Ilde accoglie ancora dentro la stanza dai fiori azzurri. Vorrei che fosse lei ad accogliermi. Mi aiuterebbe a spogliarmi, e insieme ci infileremmo nella vasca da bagno. Lì, tra sali profumati e vaporosa schiuma, rimarremmo fino a notte inoltrata. Le racconterei del fronte e di come l’ho pensata per tutti questi anni.»

«Tu, invece?»

«Penso che per la prima volta in vita mia metterò piede in una chiesa»

L’amico lo guardò.

«Poi forse partirò per la campagna»

«Hai qualche amichetta nascosta?»

«No, non ho nessuno. Solo un podere in rovina appartenuto a un vecchio zio».

«Io non credo di riuscire ad addormentarmi nel mezzo del silenzio. L’ho temuto per quattro anni. Ogni notte pregavo di avvertire qualche rumore, poco prima di chiudere gli occhi vinto dalla stanchezza. La cosa più terribile è addormentarsi nella quiete e svegliarsi nel cuore della tempesta. Voglio giacere tra braccia di donna ogni sera, fino alla fine dei miei giorni».

«Nobile destino»

Il tempo era trascorso e le ombre della sera già carezzavano le fronde degli alberi i cui rami, spogliati dalle foglie, solleticavano i vetri delle finestre della locanda. Ogni tanto qualcuno si alzava, pagava e nel silenzio sommesso solcato da un lieve chiacchiericcio, se ne andava afferrando cappotto e cappello dall’attaccapanni all’ingresso.

Dietro al bancone l’oste asciugava i bicchieri gettando talvolta qualche fugace occhiata in direzione dei tavoli, per cercare di capire quanto lavoro lo stesse ancora attendendo. Riccardo guardò l’orologio da taschino sopravvissuto alla pioggia battente e agli assalti all’arma bianca e si disse che forse era ora d’andare. Arturo pensò esattamente la stessa cosa. Gli amici si alzarono dal tavolo, uno dei due insistette per pagare, l’altro ovviamente non glielo permise. Dopo aver saldato i conti e ringraziato, uscirono. Subito, vennero investiti dai profumi umidi della sera autunnale. Foglie secche volteggiavano nell’aria, incoraggiate dalla brezza pungente che solcava le strade dove iniziavano a comparire le prime coppie abbracciate. I lampioni piano piano si accendevano e i tavolini dei caffè si animavano di gente dal vestito buono. I due amici si scambiarono qualche sorriso, ripromettendosi che presto si sarebbero rivisti. Poi se ne andarono, ognuno per una strada diversa.