Racconto di Lucia De Bortoli
(Settima pubblicazione – 20 novembre 2019)
Avevo 12 anni ed era sempre buio.
Dormivamo in baracche di legno su giacigli di coperte sporche e materassi sudici. Erano le stesse dei lager di dodici anni prima e il legno era impregnato di morte e tristezza.
Quando un mese prima mio padre mi disse che saremmo andati in Belgio a lavorare in miniera per un anno, mi sentii grande e orgoglioso che mi portasse con sé.
Partimmo in treno a notte fonda. Ricordo ben poco del viaggio, era buio ed io non arrivavo al finestrino per guardare fuori, vedevo solo manichini ammassati con pantaloni troppo larghi.
Quando arrivammo tutto era nero intorno a me, gli alberi in lontananza incorniciavano una distesa di sabbia e fango e riuscivo a vedere appena i lineamenti di due giganti di metallo, uno di fronte all’altro, pronti a sfidarsi in battaglia. Mi spiegarono subito che quelli erano i tralicci dei pozzi che movimentavano gli ascensori.
Ci svegliavamo di notte e ci calavamo in quelle gallerie buie fino a quasi mille metri di profondità.
Tutto intorno era nero, le pareti, il terreno, i nostri vestiti, i nostri volti.
Le luci fioche delle lampade vibravano tra la polvere del carbone come nuvole cariche di cattivi presagi.
Faticavo a riconoscere mio padre, scuro in volto e negli occhi, con distratte pennellate nere che gli uscivano dalle narici e gli segnavano la bocca.
Sembrava di essere in un cinematografo dei fratelli Lumière, tutto era nero e grigio in ogni sua tonalità, ci muovevamo silenziosi e, i nostri sguardi si incrociavano a fatica per non vedere nel volto degli altri il riflesso di noi stessi.
Solo a notte fonda gli ascensori ci riportavano in superficie e come gatti stanchi ci dirigevamo verso le baracche.
Non riconoscevo il giorno dalla notte, se non perché scandito dall’ascensore, angelo meccanico, che ci portava in due inferni entrambi bui.
Quella mattina dell’8 Agosto mi avevano mandato in un cunicolo più piccolo del solito.
Era il mio lavoro entrare nei punti stretti, per cercare il carbone migliore. Picconavo, scavavo e spalavo, distinguendo a malapena le mie mani dagli attrezzi e i miei vestiti dalle pareti del tunnel.
Stavo già lavorando da tre ore, quando ad un tratto sentii un botto così forte che le orecchie si tapparono. Uscii dal mio cunicolo camminando tra il fumo accecante, vidi una luce di morte, fuoco ovunque si faceva strada tra nuvole di gas, uomini braccati che tentavano di salvarsi, bambini immobili come negativi di una foto dove solo le lacrime bianche rigano il volto, carrelli rovesciati usati come scudo d’altri tempi.
I miei occhi udivano tutto il dolore e la devastazione perché le mie orecchie non potevano più farlo. Cominciai a correre anche io verso il tunnel di areazione, ma il nero buio, la notte irreale e catastrofica mi bloccò.
Persi i sensi e chiusi gli occhi che non sapevo di avere aperti.
Dopo molte ore i soccorritori mi trovarono e mi portarono fuori.
Erano le tre del pomeriggio.
Steso su una barella di fortuna, riuscii ad aprire gli occhi e vidi un mondo a colori che avevo dimenticato. L’azzurro confortante del cielo e il giallo accecante del sole si facevano strada tra le nubi, mostri neri di morte.
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