Racconto di Manlio Monti

(Seconda pubblicazione – 13 novembre 2019)

 

Sì è vero, ho cambiato la moto. Qualcosa in contrario?
Bene, ormai vi sarete accorti tutti che i giorni si accorciano sempre più. Normale, direte, è inverno! Ma forse vi è sfuggito il particolare che si accorciano da sempre, da quando siete nati. Si accorciano anche in estate.
Io, strada facendo, l’ho capito già da un po’ e, dopo aver fatto una mano di conti, ho deciso che era arrivato il momento.
Perché dovete sapere che tra tutti coloro che non sono mai saliti in sella a una due ruote pochi sanno che sono assai diverse una dall’altra. Hanno caratteri molto differenti, proprio come le persone.
Com’è normale che sia, essendo state create dagli uomini, sono creature bizzarre, fantastiche ma imperfette, così come l’idea che aveva in testa il loro creatore. Di Leonardo ce n’è uno, tutti gli altri ne han trentuno. Eppoi diciamocelo, la perfezione appiattisce, alla lunga stanca fino a diventare una noia insopportabile.
Quindi non potendo cambiare me e di conseguenza il mio modo di vedere le cose, ho cambiato la moto.
Ne ho preso una molto poco tecnologica, più accondiscendente, non più giovane, ma giovanile, sbarazzina, leggera, maneggevole, più vicina alla nostra essenza umana insomma.
Qualcosa che esteriormente assomiglia ad una vera motocicletta e non al traliccio di un’isola petrolifera o alla navicella di Predator caduta per sbaglio sulla Terra.
Quella che avevo, ultima di una lunga serie iniziata nel Cretaceo con una Vespa 150, era una matrona dall’aspetto imponente.
Una splendida creatura nata per portarti in carrozza ovunque e comunque. In qualsiasi parte del Mondo tu volessi andare, sorprendentemente anche in posti inimmaginabili considerando la sua stazza. Non a caso le altre della stessa categoria le ho battezzate coi nomi di portaerei: Enterprise, Nimitz, Hornet.
Ma particolarmente con quest’ultima, volente o nolente, ero sempre al centro dell’attenzione. A ragione comunque, perché non era solo una moto nata per farsi notare, era davvero il top, il massimo possibile su due ruote prodotte di serie.
Al solo apparire suscitava quelli che a me parevano sguardi di invidia, anche un pochino rancorosa, perlomeno mi davano questa impressione e creava uno spartiacque tra le moto presenti dividendole in classi.
Scavava istantaneamente un solco e piazzava Lei-io di qua, in berlina a lustrare suppellettili dorate, le Altre-voi di là, a masticare cicoria biascicando pneumatici, cavalli e secondi da zero a cento. E questo avveniva mio malgrado perché mi sentivo osservato e, amici a parte, escluso, praticamente emarginato. Nessuno se non un mio pari veniva a chiedermi qualcosa, del tipo: quanto fai con un litro?
Purtroppo la gente, checché se ne dica, giudica dalle apparenze e anche se non mi è mai interessato granché dell’opinione degli sconosciuti, il pensiero che mi ritenessero uno stagionato fighetto esibizionista e anche un po’ coglione, mi infastidiva.
Ma non è certo questo il motivo per cui l’ho cambiata, di moto ne ho cambiate tante da sempre, non so quante, non le ho contate, non certamente per apparire ma seguendo un criterio logico, cioè l’uso che intendevo farne. Per quello che mi servivano insomma, secondo le esigenze del momento e le mie possibilità sia fisiche che economiche e spesso con sacrifici, rinunciando magari alla mise di moda o al privè in discoteca. Tanto per dire.
C’è chi la chiama passione, non so se la mia lo è davvero, forse è più un bisogno carnale, l’esigenza fisica di cavalcarle e provare l’emozione di estrarre tutta la loro potenza, di esprimere tutto il loro essere. In altri termini, di usarle.
Loro però, se potessero parlare, si incazzerebbero di brutto se chi le cavalca si limita a questo. E a ragione, perché il piacere che trasmettono è sempre reciproco. Uno scambio di sensazioni e prestazioni attraverso una simbiosi che deve esserci per forza.
Chi invece le tratta come oggetti inanimati non ha capito niente e le ferisce nell’anima, perché loro un’anima ce l’hanno eccome! Gliel’ha infusa il loro creatore, colui che l’ha prima ideata, poi generata, fondendo metalli e alesando cilindri.
E rifacendomi al paragone con le donne, tutti conoscerete il vecchio motto: donne e motori gioie e dolori, tra di loro sono diverse, molto diverse. Ognuna con un’indole e un corpo differente, per rendere prestazioni dissimili, spaziando dalle acrobazie fuori strada ai vertiginosi salti dei campi da cross, dai grandi viaggi internazionali, alle passeggiate in collina, dalle tirate sui passi alpini fino alle folli velocità delle piste da MotoGP.
Infatti non esiste una moto universale, non può esistere. La moto non è una scatola di lamiera multiuso con quattro ruote, ma ne hanno solo due e da ferme sono tralicci di ferro che si rovesciano.
Le moto devono muoversi per esprimere il meglio di sé e tutte le loro peculiarità, per essere una cosa viva.
Potrà dunque chi ama andare in moto limitarsi ad averne una sola? Infatti, come ogni motociclista che si rispetti, per un lungo periodo ne ho avute più di una in garage, ovviamente con diverse attitudini.
Mi sono autodefinito motociclista e forse un tempo, in gioventù, lo sono stato ma oggi, sempre causa del fottuto accorciarsi dei giorni, mi sento più un motoviaggiatore, perché il piacere principe me lo dà la semplice guida, l’andare polleggiando immerso nella natura che più natura non si può, col vento che mi schiaffeggia in viso in totale simbiosi col paesaggio che mi avvolge e mi penetra, coi profumi e gli odori che entrano attraverso i pori della pelle e alla violenta bellezza dei panorami che si spalancano alla vista ad ogni curva e che mi commuovono sempre, fino alle lacrime, spaccandomi il cuore ogni volta come la prima.
Ma poi anche l’inebriante sensazione di leggerezza in salita, l’angoscia della staccata, la strizza delle pieghe estreme e le gocce di pioggia dei nubifragi che pungono come spilli entrando dalla visiera alzata per avere un minimo di visibilità, l’indescrivibile felicità dell’arrivo alla meta, quando puoi toglierti la tuta inzuppata e scaldarti sui termosifoni le dita congelate dal nevischio ghiacciato degli oltre duemila dei passi alpini.
Emozioni ataviche, spontanee e incontrollabili, che si rinnovano sempre inesauste, sempre uguali, sempre diverse, sempre stupende.
Perché amici miei, il motociclista ogni volta che sale in sella e chiude la visiera del casco è come se entrasse in uno Stargate che lo trasporta in un altro mondo e quando sale in una moto diversa, per quanto bello sia, anche quel mondo cambia e ne vede uno diverso.
Forse anche per questo ho cambiato la moto. Qualcosa in contrario?