Racconto di Gianluca Fratini

(Prima pubblicazione)

 

 

Sono secoli che viviamo in questo posto buio ed umido cercando di riscaldarci l’un l’altro, ma che calore può dare un osso rinsecchito? I più fortunati di noi, riescono a riscaldarsi con i lumi lasciati accesi da quei pochi che ancora hanno compassione per quel che siamo stati e che, eternamente, resteremo: ossa del purgatorio buttate a casaccio in un fosso, con l’anima condannata a vagare per l’eternità.

Quando la luna è alta nel cielo, i privilegiati del cimitero, quelli che si godono la loro tomba, la loro cassa in legno con l’interno zincato, hanno la loro migliore foto sulla lapide, sì hanno anche la lapide ed hanno  anche il miglior vestito addosso; non solo, ma hanno anche le loro membra di carne. Dicevo, si avvicinano alle grate dalle quali è possibile vederci, gonfiano il petto di aria mischiandola al putrito che hanno in corpo, soffiano sui lumi spegnendoli e danno inizio alla nostra maledizione.

La nostra lucidità viene spazzata via dal fetore del loro alito che ci asfissia, cominciamo a calpestarci l’un l’altro, spingendoci e spezzandoci, colpendoci e maledicendoci, andando alla vana ricerca delle nostre spoglia con l’intento di riformarci come scheletri interi. Nella frenesia della maledizione ci ricostruiamo afferrando le prime ossa a disposizione, perché la paura che ci attanaglia è quella di non riuscire a ricomporci e restare quindi al suolo tutta la notte.

I morti ci guardano ridendo, a dire il vero riderei anche io se solo fossi all’esterno e non nella fossa. Quel che sono costretto a guardare ogni volta invece, mi rende pazzo di rabbia. Lunghe braccia appese a minuti costati, piedi al posto delle mani o viceversa, gambe di lunghezza diversa e teschi sfondati.

Siamo orrendi, umiliati di giorno e di notte.

Quando il vento si insinua nel fossato e spazza via il tanfo di marcio ci ridestiamo, ed è allora che ci rendiamo conto di ciò che ci hanno fatto fare. Se solo riuscissimo ad afferrare uno di loro, trascinarlo nella fossa, calpestarlo e strappargli quel che resta delle sue carni, ma invano ci aggrappiamo alle inferriate che ci tengono prigionieri e ci separano da loro.

Tutto ciò avviene ogni notte, tranne in quella tra il trentuno ottobre ed il primo novembre. Oggi è il trentuno ottobre.

I morti, stanotte non soffieranno sui lumi e non rideranno, ma si terranno bene a distanza dal nostro fossato. Come sempre siamo ammassati, i lumi sono accesi e la luna piano piano sta salendo alta nel cielo, ma manca poco. Sentiamo lo scalpitio dei passi pesanti che producono i morti lasciando il cimitero.

Fuggono fin quando sono in tempo.

La luna ha raggiunto alla sua massima altezza, il vento entra nella fossa accarezzando ognuno di noi. Comincia un turbinio di ossa che vorticano e si saldano tra loro, come gli altri anche io mi ritrovo in piedi sulle mie gambe, le mie braccia perfettamente unite al costato ed il mio teschio posato alla perfezione sulla colonna vertebrale, le mani finalmente al loro posto ed i piedi che poggiano sul terreno. Anche le ossa che  si sono spezzate durante l’anno stasera si saldano col resto. I più vicini alle inferriate si aggrappano ad esse e le staccano dal muro, pochi attimi e sono fuori. Io sono in mezzo alla ressa che spinge per uscire, ma nonostante sia ancora nella fossa, sento già le grida di disperazione dei morti che vengono afferrati e squarciati dai miei amici del purgatorio. La gente della città vedrà i morti correre per le strade ed avrà paura, la chiama “notte dei morti viventi”, ma non sa che stanotte noi scheletri siamo i cacciatori e i morti sono le nostre prede. I morti prendono vita e noi scheletri diamo loro la caccia per trascinarli nel nostro fossato prima che giunga l’alba. Cercheranno di entrare nelle case, uccideranno pur di riuscire a scappare, ma alla fine molti di loro periranno con noi per l’eternità.

Sono finalmente uscito dal fossato, rincorro colui che pochi giorni fa non solo ha soffiato sui lumi, ma ha anche sputato la sua schifosa saliva colpendo il mio teschio. Essi non riescono a correre bene, non ho mai capito perché, noi invece abbiamo tutte le ossa al posto giusto e possiamo raggiungerli velocemente. Si gira e mi vede, capisce che è diventato la mia preda e mentre i miei compagni fanno festa attorno a due corpi,  ai quali hanno strappato le braccia ed un gamba, io corro più velocemente per raggiungerlo. Sento alcuni spari e noto che dei morti hanno cercato di rifugiarsi in una casa, ma sono stati male accolti. Purtroppo  però non ci sarà scampo per gli abitanti della casa, le pallottole si conficcano nella carne ma non arrecano alcun danno. Bisogna strapparli a pezzi, ecco cosa bisogna fare.

Mentre corro sento i lamenti dei morti viventi che vengono sventrati dagli scheletri, non posso fare a meno di far caso anche alle strilla di terrore provenire dalle varie abitazioni prese d’assalto dai morti.

Raggiungo la mia preda proprio quando riesce a chiudersi la porta di un’abitazione alle spalle, lasciandomi fuori. Sento le grida di una donna, guardo dalla finestra e vedo che il morto le sta mordendo il naso e la bocca, un uomo terrorizzato riesce a prendere la figlia e a correre al piano di sopra. Rompo il vetro ed  entro, il morto sputa di lato i denti della donna poi cerca di salire le scale, mentre la poveretta affoga nel suo stesso sangue. Gli afferro una gamba, cade di faccia, il naso si spezza all’insù, mi colpisce con l’altro piede e lo lascio. L’uomo di casa spara tutti i colpi del suo fucile facendo sobbalzare il corpo del morto, quest’ultimo continua a salire le scale trascinandosi sui gradini. Con mia meraviglia l’uomo non scappa, afferra il fucile per la canna e usandolo come una mazza inizia a fracassargli il cranio. Un occhio si stacca dal viso rotolando sui gradini, lo schiaccio sotto il mio piede, poi allungo le ossa del mio arto superiore ed afferro il fucile prima che colpisca nuovamente il morto. L’uomo mi guarda, capisce che non voglio fargli del male e si allontana, poso il fucile di lato, afferro il morto per il piede e me lo trascino dietro fino al cimitero. Lo butto nel fossato e sento il tonfo sordo quando raggiunge il suolo, siamo i primi a rientrare. Nell’attesa che tornino gli altri affondo la mia mano scheletrica nel freddo addome del morto, tiro fuori alcune ossa e  le lancio oltre l’uscita, così non potrà mai più ricomporsi per intero.

Prima dell’alba siamo tutti dentro. Con il nuovo giorno le inferriate sono di nuovo al loro posto, i nostri scheletri cominciano a perdere pezzi ma ci sentiamo meno soli.

Da domani notte altri corpi ci faranno compagnia e nessuno saprà dare loro un nome.

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