Racconto di Giuseppe Durante

(prima pubblicazione – 3 agosto 2020)

 

 

Mi trovavo sul mio balcone di casa, mezzo svestito, avvolto solo da una camicia bianca, un paio di boxer neri e dal freddo delle 3:00 di notte di quel dicembre.

Il mio sonno non era stato dei migliori, tanto da costringermi ad alzarmi; dovevo distrarmi. Accesi una sigaretta e mi persi nella mia mente, ammirando il paesaggio della città poco visibile davanti a me, sfregandomi le braccia, per portarmi un po’ di calore.

Cominciai a pensare, facendo un tiro, a tutto ciò che mi era successo nei giorni precedenti.

Non passò molto tempo prima che il mio groviglio di pensieri venisse interrotto.

«Ian? Ma che fai qui fuori al freddo?»

Mi voltai e la mia compagna uscì in balcone. Non aveva nulla addosso, se non il piumone verde che faceva da coperta al mio letto.

Mi si avvicinò e mi guardò dal basso verso l’alto con i suoi occhioni azzurri, mentre i suoi capelli neri e lunghi venivano spostati dal vento gelido.

«Non riuscivo a dormire, avevo bisogno di distrarmi.» Risposi mostrandole il sorriso più falso di cui ero capace.

Mi guardò incuriosita e incredula.

Non l’avevo convinta.

Eppure, in fondo, era la verità.

«Sembri preoccupato. Che stai pensando?» Mi chiese.

Cosa stavo pensando…

Ce n’erano di cose.

Alle mie dimissioni da ispettore di polizia, per esempio, date per mancanza di stimoli.

Non era più soddisfacente come un tempo, quando ero giovane, pieno di speranze, di sogni e voglia di fare, convinto di poter dare una svolta e di cambiare il mondo. Poi mi accorsi che un solo uomo non cambia assolutamente nulla in un insieme così vasto. Neanche impegnandomi sarei riuscito ad apportare i cambiamenti che avrei voluto. Una persona può cambiare la vita di un’altra, o di tante altre, ma è comunque un numero limitato, ed era già tanto essere riuscito a fare la differenza anche solo in una, ma ero sicuro di non avercela fatta.

Per me era più facile farmi cambiare, ma non è così forse per tutti? Cambiamo idea continuamente, e anche quando siamo fermi sulla nostra decisione, non stiamo facendo altro che sostituire la nostra idea con una più forte che sovrasti quella opposta, cercando motivi validi che la sostengano, un po’ come se stessimo cercando di convincerci di aver ragione a tutti i costi. Ci preoccupiamo mai delle credenze della gente e di quello che provano? Mai abbastanza forse. Ed io non ero sicuramente da meno. Una di quelle poche cose, infatti, in cui non mi ero mai sentito in difetto.

Il mio complesso di inferiorità mi aveva quasi costretto ad andare avanti nel mio mestiere, per molti è un motivo di resa, nel mio caso fu tutto il contrario, per quanto poi il risultato finale fu comunque lo stesso. Ma avevo qualcosa da dimostrare, a me stesso e al mondo circostante: si può migliorare. Ma ogni dimostrazione ha bisogno di essere avvalorata e necessita di solide basi, cose che non smisi di ricercare, almeno finché non mi costrinsi ad arrendermi.

Il non volermi più preoccupare di tutto questo fu solo un altro dei motivi per cui lasciai quel lavoro.

Pensavo alla notizia della morte del mio caro amico Herb, che fu un’altra delle cose che percosse la mia vita in quei giorni.

Sapevo che la sua salute non era delle migliori e che peggiorava continuamente.

Cancro.

Ci sono lotte che si intraprendono contro la propria volontà perché si è costretti dagli eventi, e questo fu esattamente il suo caso. Non puoi prevedere una malattia grave come questa, per esempio, e quando colpisce ti trovi impreparato per la maggior parte delle volte. Hai solo qualche segnale, niente che sembri di troppa importanza e non ci dai troppo peso, continuando la tua vita come al solito.

Quando cominci a cedere e ad essere sempre più cagionevole ti fai vedere da qualcuno. Passano i giorni, non fai altro che chiederti che cos’hai e qual è il tuo problema. Poi ti avvisano. La gente reagisce in modi diversi a cose del genere, ma il momento prima della notizia e quello dopo sono comuni a tutti. L’ansia attanagliante e la tachicardia assordante prima che il medico parli. Dopo aver informato il paziente sulle sue condizioni di salute, a primo impatto si resta spiazzati e si ha quel senso di impotenza. La sensazione di essere persi e il non sapere cosa fare. Si resta in silenzio e non si ascolta più nulla, come se il cervello non volesse più accumulare informazioni perché ne sta elaborando una troppo grande. Si può essere ancora in tempo e può già essere troppo tardi. In entrambi i casi, non si sta comunque lottando? In un modo per sconfiggere il nemico, nell’altro per cercare la via per un armistizio, una tregua che permetta di vivere dignitosamente il restante tempo a disposizione.

Pensavo al giorno in cui mi avvisarono della sua morte.

«È arrivato il suo momento.» mi dissero.

Il suo momento? Sembrava quasi una cosa positiva. Che da un lato sicuramente lo era.

Cosa aveva dovuto sopportare non potevo neanche immaginarlo… L’immagine del suo corpo morto mi tormentava di tanto in tanto, quel grigiore e la sua espressione mi facevano venire in mente la parola “spento”. Io mi facevo mille paranoie, ma indipendentemente da tutto, c’è sempre chi sta peggio. Eppure, esserne a conoscenza non mi faceva stare per niente meglio.

Come quando andai al suo funerale. Non stavo di certo meglio sapendo che lui sarebbe stato sepolto sotto terra, mentre io sarei rimasto ancora in vita. Per tutta la durata della funzione rimasi in disparte. La gente mi si avvicinava e mi faceva le condoglianze dopo averle fatte ai parenti più stretti.

«Mi dispiace.» Mi dicevano alcuni.

Non dovevano certo essere dispiaciuti con me. Era lui che non c’era più, ed era con lui che dovevano scusarsi; per non aver fatto abbastanza e per non averlo apprezzato a dovere mentre era in vita. Ormai era troppo tardi.

«Se hai bisogno di qualcosa puoi contare su di me.» Mi dicevano altri.

Ma era una cosa che sicuramente non avrei fatto. Non mi avevano mai neanche lontanamente calcolato e avrei dovuto fare affidamento su di loro? Per cosa poi?

Non era necessario questo finto perbenismo. Dare fiato alla bocca per dire cose di questo tipo solo perché è convenzione. Non ero altro che uno sconosciuto in mezzo ad altri sconosciuti che fingono di conoscersi per scambiarsi falsi convenevoli. Ma lo fanno tutti e tutti convengono sul fatto che sia corretto agire così. Non ho mai sentito nessuno lamentarsi di questa cosa.

Non avevo bisogno di una spalla su cui piangere. E a dirla tutta non piansi neanche. Ero arrabbiato con me stesso per non esserci riuscito, ma sapevo che Herb non se la sarebbe presa se lo avesse saputo. Era sempre stato molto naturale, nel senso che secondo lui non bisognava forzare le cose. Non ero molto d’accordo, ma non mi misi mai a polemizzare su questo.

Pensavo al fatto che per certi versi avrei voluto essere al posto del mio amico e a quella volta in cui ci andai veramente vicino.

A quello che provavo in quel momento. Come insoddisfazione, per non essere stato in grado di ottenere tutto quello che volevo nella mia vita. Tristezza, per la perdita di Herb e di come avrei sentito la sua mancanza.

Alla mia voglia di gridare e di sfogarmi. A come non mi sentivo felice e di come avevo paura di restare troppo tempo da solo.

Al dolore al petto che sentivo di tanto in tanto. Forse era il caso di farmi controllare, nonostante la paura di venire a conoscenza di qualcosa di cui avevo il terrore.

Potevo dirle di come spesso sentivo il bisogno di farmi del male per sentirmi bene, tipo bere e fumare che riuscivano a farmi stare meglio solo per poco. Di come mi sentivo abbandonato e tormentato e di come pensavo di essere stato l’unico fautore delle mie sfortune.

Del mio comportamento autodistruttivo, di come tendevo ad autosabotarmi anche nelle cose più piccole.

Pensavo alla maschera che avevo indossato ogni giorno, fingendo che nulla potesse percuotermi e di come avessi fatto la parte del duro e del serio per degli anni.

Oppure potevo dirle di come pensavo a lei e che fosse l’unica cosa bella capitatami.

A quando ci eravamo conosciuti e cominciammo a frequentarci. A come pensavo si fosse innamorata di me per puro caso e che una volta conosciuto abbastanza se ne sarebbe andata come tutti gli altri.

Avrei potuto dirle che pensavo alla mia paura di perderla.

A quanto fossi innamorato di lei.

Al mio timore di farle del male.

A come mi sarei sentito perso se non ci fosse più stata.

O di come fosse l’unica persona di cui potevo veramente fidarmi e di cui non avrei potuto fare a meno.

Pensai tutto questo e molto altro nel giro di due secondi. Giusto il tempo di dare un tiro alla sigaretta.

Gettando fuori il fumo sorrisi e risposi:

«Niente.»