Racconto di Simona Volpe

(Prima pubblicazione)

 

Mi sveglio nella notte con una sensazione di gioia immensa. La gioia di uccidere. Prendere il coltello e colpire. Sentirne la resistenza mentre affonda. Trovarsi improvvisamente in un incontrollabile turbine di felicità. Percepire l’odore metallico del sangue. Ho voglia di farlo ancora. Sempre. Vorrei non smettere mai. È questo il paradiso di cui parlano tanto? Ma ora ho sonno. È solo un dolce risveglio notturno. Voglio continuare a sognare.

Io e il mio fratellino stiamo correndo. Mi tiene forte la mano mentre piange disperato. Non so come farlo smettere. Dobbiamo correre, correre via. Il perché non riesco più a ricordarlo ma so che dobbiamo andarcene. Dobbiamo fuggire. Lui è stanchissimo. Corre e piange; non ce la fa a tenere il mio ritmo. Inciampa e cade. Inizia a piangere ancora più forte. Vedo che ha i pantaloncini bagnati; si è fatto la pipì sotto. Non dico nulla. Mano nella mano procediamo più lentamente. Io invece non mi sento stanca: le mie gambe hanno voglia di muoversi, di andare lontano. Infine, ci fermiamo per riposare. Seduto sull’erba, continua a singhiozzare e a chiamare mamma e papà. Non so cosa fare.

“Tieni, ho dei cioccolatini in tasca.”

I suoi preferiti. Non mi ricordavo di averli presi. Non ricordo nulla di questa sera; solo che dobbiamo scappare. Lui li prende e inizia a mangiarli, smettendo di frignare. Alzo la testa per guardare le stelle. Sono bellissime.

“Greta.”

Mi volto a guardarlo. Ha la boccuccia e le manine tutte sporche di cioccolata.

“Quando torniamo a casa da mamma e papà?”

Non so cosa rispondere.

“Ti ricordi la strada per tornare a casa?” dico.

Il suo visino si fa serio mentre si sforza di ricordare.

“Si, dobbiamo tornare indietro. Fino a casa.”

“Va bene. Allora domani mattina torniamo. Ora è troppo buio.”

Sembra tranquillizzarsi. Si accoccola vicino a me.

“Mamma e papà domani sono a casa, vero?”

“Certo. Ora fai la nanna.”

Si sdraia con la testina sulle mie gambe. Gli accarezzo i capelli finché non sento il suo respiro farsi più pesante. Sfilo delicatamente le gambe per non farlo svegliare. Mi stendo anch’io e continuo ad ammirare il cielo notturno.

Apro di nuovo gli occhi. Mi giro su un fianco per cercare di riaddormentarmi. Mi graffio il braccio urtando le travi a pochi centimetri dal mio viso. Mi lascio trasportare dai ricordi. Quell’uomo era capitato qui per caso. Era vestito come un cantante rock. Mi piaceva il suo stile. Gli ho sfondato la testa da dietro. È stato divertente. C’era sangue dappertutto. Con la donna invece ho giocato di più. Chissà perché era entrata qui. L’ho infilzata con un ferro arrugginito nella pancia e poi l’ho guardata strisciare sul pavimento. Quando non si è mossa più ho rovistato con il ferro dentro di lei.

Alla luce del giorno mi accorgo che il mio vestitino rosa è tutto sporco di sangue.

“Ti sei sporcata con la cioccolata anche tu!” ride mio fratello.

Gli sorrido.

“Vieni, andiamo a fare colazione.”

“Dopo colazione torniamo a casa?” mi chiede con il visino improvvisamente serio e teso.

“Si, certo. Facciamo colazione e dopo torniamo a casa da mamma e papà e gli diciamo di pagare.”

Si rilassa e mi segue. Camminiamo lentamente. Lui mi tiene stretta la mano mentre canta le canzoncine dell’asilo per darsi coraggio.  

“Greta, quando arriviamo? Io ho fame!”

“Tra poco. Così puoi mangiare la tua tazza di latte e cereali al cioccolato.”

Per un po’ sta buono e mi segue tranquillamente.

“Siamo arrivati ora?”

Non so cosa fare. Non so dove stiamo andando. Non riesco a ricordare perché stiamo fuggendo.

“Siamo arrivati?!?” Insiste con la vocina un po’ incrinata dal pianto.

Poi la vedo.

“Si, certo! Siamo quasi arrivati! Dobbiamo arrivare laggiù, guarda!”

Gli indico quella casa in rovina. Riprende a seguirmi buono buono mentre ci dirigiamo lì.

“E’ questo il posto per fare colazione?”

La casa è bianca con il tetto marrone. Le finestre sono tutte rotte. La porta d’ingresso è aperta. La serratura è stata divelta. Alcuni mobili vecchi e sfondati sono stati gettati alla rinfusa lì davanti.

“Si, credo di sì. Entriamo a dare un’occhiata.”

“Greta, io ho paura! Non ci voglio entrare.”

Gli occhietti iniziano a riempirsi di lacrime.

Faccio un ultimo tentativo.

“Forse le persone che ci hanno preparato la colazione ci aspettano all’interno. Dobbiamo andare a vedere.”

Sembra convincersi. Spero veramente che ci sia qualcuno con qualcosa da mangiare. Sto morendo di fame. Entriamo.

La luce del giorno inizia a filtrare tra le fessure delle travi sopra di me. Mi sveglio. Sento dei rumori provenire dal basso. C’è qualcuno. Sono arrivati altri ospiti nella casa degli orrori. Non sanno che mi nascondo nel sottotetto. Ora stanno salendo le scale. Inizio a uscire lentamente dal mio rifugio. Sono molto debole. Mangio pochissimo. Solo snack presi al distributore di una stazione di servizio. Ci metto molto ad arrivare fin lì, ma è l’unico posto dove posso trovare qualcosa da mangiare senza dare troppo nell’occhio. Racimolo i pochi soldi dai portafogli di quei malcapitati. A volte anche i vestiti. Mi ritrovo sulla terrazza. Mi piace quando il vento accarezza il mio corpo magrissimo. Quando prova a smuovere i miei capelli aggrovigliati.

Non è rimasto nulla dentro questa casa a parte un vecchio forno e una gabbia grande. Forse è una gabbia per conigli. Ho lasciato il mio fratellino al piano inferiore mentre continuo a esplorare la casa. Non c’è nulla da mangiare. Il bagno del piano superiore è rotto e pieno di mosche. In quello del piano inferiore qualcuno ha lasciato un ricordino. Continuo a girare finché conosco a menadito tutte le stanze. I vetri rotti scricchiolano sotto le mie scarpe. Ho trovato delle bottiglie di birra vuote. Dalla puzza che emanano direi che qualcuno le ha lasciate qui di recente. Forse lo stesso che ha lasciato il ricordino nel bagno. C’è anche un pezzo di pizza pieno di mosche e di formiche. Non mi importa, ho troppa fame. Mentre mangio, il vento che entra dalle finestre rotte mi scompiglia i capelli. Esco sulla terrazza. È l’unica parte della casa che ancora non ho visto. Ci sono tante gabbie aperte, piene di piccioni e dei loro escrementi. Noto una coperta rossa accanto alle gabbie. Mi avvicino lentamente. La coperta inizia a muoversi. Sotto c”è una vecchia. Il suo corpo nudo è magrissimo e pieno di croste. I suoi capelli grigi sono un groviglio pieno di sporcizia.

Mi guarda sorridente e mi chiede: “Sei venuta qui per morire, bambina?”

Osservavo quei due ragazzini dalla terrazza. Sono entrati in casa. Forse avevano voglia di esplorare una casa abbandonata. Una casa di fantasmi.  Poi lei è salita su, da sola.

Corro di nuovo al piano di sotto. Il mio fratellino giace riverso in un lago di sangue nella gabbia dei conigli.

Lui non si è accorto di nulla mentre lo colpivo con un vecchio tubo di ferro. Lei continuava a parlargli da sopra e io le rispondevo. Si. No. Solamente due monosillabi per non farmi scoprire troppo in fretta. Ho iniziato a salire di nuovo le scale. Improvvisamente ha urlato quando ha trovato i resti di quelli che erano entrati qui prima di lei. E che chiaramente non ne sono più usciti. Lei compresa. L’abbaiare di un cane mi distoglie dai miei ricordi. Il primo poliziotto mi vede. Grida agli altri di accorrere. Non ho paura. Almeno ora potrò mangiare bene. Ormai sono tutti intorno a me. Mi rassicurano. Qualcuno chiama un’ambulanza. Qualcun’ altro mi mette la sua giacca sulle spalle. Li guardo sorridendo mentre ripasso mentalmente tutte le bugie che dovrò dire. Grazie alla mia età nessuno capirà che sono io il mostro che cercano. Il mostro che ha sterminato i suoi genitori nel sonno. Che ha sgozzato il fratellino con un vetro rotto. Che ha massacrato una povera vecchietta indifesa. Che ha ucciso tutti quelli che hanno osato mettere piede in questa casa. E che non vede l’ora di farlo di nuovo. Di non smettere mai. Sfodero uno sguardo disarmante e un dolce sorriso, pronta per rispondere alla prima domanda che mi viene posta.

“Come ti chiami ragazzina?”

“Mi chiamo Greta.”