Racconto di Silvana Maroni

(Ottava pubblicazione)

 

 

Si era suddiviso in miliardi di pezzettini. Il suo essere, corpo e psiche, polverizzato in atomi che giocavano a scomporsi e ricomporsi frantumandosi in particelle sempre più piccole.

Eppure la coscienza restava. Si palesò improvvisamente quando tutti i corpuscoli rallentarono miracolosamente all’uscita del tunnel cosmico dove la gravità, rinsavita, rimise ordine nella follia di quel gorgo improvviso.

Era finito in una trappola cosmica invisibile durante una missione di routine, di ordinaria manutenzione all’esterno della stazione spaziale.

E adesso? C’era una luce fioca in fondo al tunnel che pareva infinito, dinanzi a lui. Una luce che crebbe a dismisura in un processo inflattivo imprevedibile e violento. Fu quella luce a invertire il senso dell’entropia, a rimettere in ordine i quark, gli atomi, le sue cellule, lui stesso.

Quella luce riavvolse il nastro del tempo.

Fu plasmato e rinacque, poi cadde, inesorabilmente attratto dalla gravità che aveva ripreso il consueto lavoro, ma sorprendentemente non bruciò nell’atmosfera del pianeta sotto di lui: si ritrovò in una culla di lamiere accartocciate a navigare in un oceano sconosciuto. Un oceano dai colori strani: rosa, a tratti lilla e violetto, che rimandava echi di luce della stella gigante che lo illuminava.

Quando scese la notte, dopo un tempo imprecisato, e nel cielo comparvero due Lune gigantesche e costellazioni sconosciute capì che non era sulla Terra ma su un pianeta estraneo, che appariva alieno e ostile in ogni sua forma.

Comprese anche che, esaurito l’ossigeno delle bombole, non ne avrebbe più trovato in quell’aria verdognola. Guardò le strane nuvole sulla sua testa, di forma curiosamente geometrica, che apparivano come gelati in procinto di sciogliersi, dei gusti più disparati: panna, pistacchio, fragola, amarena e sembravano colare a gocce giù dal cielo.

Sarebbe morto. Non aveva scampo: perse i sensi per il trauma e lo sgomento, certo della sua sorte infausta. Gli passarono nella mente stupita tutti i ricordi della sua casa, della sua famiglia, del bel pianeta blu che lo accoglieva tiepido e rassicurante. Sognò di ritornare a casa e di cogliere, lungo il vialetto dell’ingresso lastricato di pietre ritagliate dei colori dell’ambra,  una peonia colorata di rosa  per Emily, la sua meravigliosa e insostituibile Emily.

Provò rabbia, rimpianto, nostalgia, incredulità: sentimenti contrastanti  gli pervadevano l’essere e lo riconducevano per mano alla sua origine. Aveva mille interrogativi senza risposta.

Pensò allora che quell’oceano avrebbe rimestato il suo DNA mescolandolo a molecole prive di guida, per dar loro finalmente un senso e così, in quel mondo inospitale sarebbe nata la vita; la vita terrestre, umana, l’unica forma che lui conoscesse. Ma non andò così anche perché laggiù la vita esisteva già.

C’erano intelligenze avanzatissime in quello straordinario pianeta e non tardarono a palesarsi all’interno della sua mente. Erano antropomorfe ma trasparenti e sfuggenti come nuvole. Mutevoli come un filo di fumo, si esprimevano nella sua lingua perché, gli spiegarono, avevano una capacità innata di comprendere ed adattarsi a qualsiasi linguaggio alieno.

Gli comunicarono che era arrivato attraverso GORGROG, un cunicolo che metteva in comunicazione due Universi: pare che succedesse spesso. Ne esistevano parecchi di questi cunicoli, ma la maggior parte erano di diametro infinitesimale o comunque molto piccolo e inghiottivano soltanto piccoli oggetti.

Pensò ai calzini spaiati nella lavatrice, agli orecchini che Emily perdeva sistematicamente, alle chiavi. Gli venne da ridere. Si convinse che l’antropomorfismo degli alieni era dovuto alle sue facoltà di figurarseli, era un espediente che li faceva apparire reali. Dubitò della loro reale esistenza e pensò al delirio che precedeva la morte.

Le prime parole che entrarono nel suo cervello erano incomprensibili, poi pian piano divennero sempre più chiare come quando si prova a sintonizzare una stazione radio e si eliminano gradualmente i disturbi.

-Provieni dall’Universo tangente, la gravità ti ha trascinato qui, puoi restare se vuoi, ma perderai l’involucro di carne che ti avvolge  e vivrai per sempre con noi. Sarai parte del tutto, dell’unica grande intelligenza cosmica che pervade l’Universo Beta, capirai e sarai partecipe di tutto ciò che accade, ti nutrirai della conoscenza infinita che porta ai confini del tutto, anche se resterai escluso dalle altre bolle cosmiche. Non saprai niente dell’Universo da cui provieni, né potrai mai più ritornarci.

-No, spiegatemi, chi siete? Da quanto tempo siete qui?

-Tempo? Cosa intendi? Noi siamo qui e basta, tu puoi integrarti a noi, anche se le tue capacità sono scarse, provieni da un Universo primitivo, sei legato alla carne, ai luoghi, alle altre entità. Ma potrai evolverti sotto la nostra guida. Resta.

-Non ho altra scelta?

-Certo che ce l’hai, ma sarebbe da folli tornare nel gorgrog per compiere il percorso inverso.

Vuoi davvero tornare nell’Universo Tangente?

-Voglio tornare a casa!

Non vuoi continuare a vivere qui con noi e integrarti nella coscienza universale?

 

Pensò solo un attimo e con smarrimento a cosa avrebbe significato restare in quel mondo alieno incorporando la mente nel vapore colorato di quelle strane nubi antropomorfe: dimenticare la vita precedente, la famiglia, la gloria, l’avventura per una vita di saggezza, ascesi, comprensione progressiva del tutto. Una vita eterna. Non ci pensò più di tanto.

No, voglio vivere il mio tempo, i miei spazi, il mio Universo e morire quando sarà il momento. Voglio tornare da Emily, da Steven, dal mio cane Dingo, voglio essere imperfetto!

Non aveva alcun dubbio.

Morire? Alcuni passaggi del discorso dell’Astronauta risuonavano incomprensibili agli evolutissimi alieni, ma ne ebbero comunque rispetto e si adoperarono subito per farlo ripartire.

Faremo come dici tu, il libero arbitrio è la prima regola da rispettare, per chiunque, anche se non comprendiamo alcuni concetti espressi dal tuo ragionamento, non ne abbiamo il corrispettivo nella nostra lingua perché non esistono quaggiù: “morte”, “tempo”, per noi non hanno alcun significato

 ma daremo seguito alla tua decisione, tornerai dall’altra parte. Ricorda però, noi non abbiamo potere né riusciamo a sapere nulla degli altri Universi, non sappiamo cosa potrebbe accaderti!

-Lo so io, e in ogni caso mi accollo qualsiasi rischio, il gorgrog è un cunicolo, una via di comunicazione? E allora è la strada giusta per tornare a casa, la via del ritorno.

Nonostante la sensazione di smarrimento, la scenografia astratta che sembrava soltanto la proiezione di un brutto sogno, di un incubo da indigestione, l’Astronauta era stranamente lucido e formulava ragionamenti coerenti al pari dei suoi gassosi e variopinti interlocutori.

-Pareidolia- pensò, per questo sembrano umani, probabilmente è solo una messa in scena della mente prima della fine. Li asseconderò e mi lascerò trascinare nel gorgo…

Così fu.

Non pensò a quella strana precisazione sul tempo e la morte, non credé fossero importanti nel turbinìo di sensazioni e suggestioni da cui era stato travolto. Era pronto ad affrontare un nuovo incubo. Si sentì smembrare briciola dopo briciola, singolo atomo, singolo quark, unità infinitesimale e insignificante. Si scompose e ricompose, rapidamente, riconquistando gradualmente coscienza e consapevolezza nel nuovo Universo, quello tangente, la sua vecchia casa.

L’energia in gioco era enorme ma agiva lungo un flusso preciso, in una direzione mirata, quella che scorreva verso il pianeta Terra, blu nello spazio nero, ricoperto di nubi di ovatta, impalpabili e familiari.

Si ricompose nel punto esatto da cui era sparito, con precisione millimetrica, di fronte alla Stazione Spaziale, immediatamente fuori di essa. Eppure non la riconobbe: la forma era sottile, allungata e i colori del metallo bluastri, ma la sua mente non era lucida, pensò. Seguì un sonno profondo, una specie di anestesia totale che lo portò ad annaspare in un oceano di aria liquida, rivide le nuvole cubiche, riascoltò gli echi delle voci dell’Universo beta, anche se stavolta risuonarono del tutto incomprensibili. Risentì nel suo essere la pace e la consapevolezza di quella breve esperienza a cui aveva velocemente rinunciato. Ma qualcosa non andava: una sensazione sottilissima, strisciante eppure chiara e netta che trovò conferma quando si risvegliò in una cella e vide enormi occhi che lo osservavano da oblò che avevano l’aria di essere porte blindate di massima sicurezza. Ma c’erano uomini dall’altra parte, erano i suoi compagni o altri astronauti ma comunque terrestri, le sagome erano familiari, eppure… Inizialmente stentò a comprendere, poi si diede mille spiegazioni.

Era ricomparso nello spazio vuoto, all’improvviso, poteva essere un qualsiasi alieno, ostile e malvagio, le misure di sicurezza erano necessarie. Non aveva visto le sue fattezze ma pensò di non essere stato riconosciuto, di essere stato scambiato per un alieno vagabondo degli spazi, certamente in seguito avrebbero capito chi fosse, era scomparso da poche ore in fondo, anche considerando una lieve distorsione temporale, quanto tempo poteva essere passato?

Gli astronauti lo interrogarono: avevano una strana voce metallica a cui lui non fece caso all’inizio. Spiegò serenamente la sua esperienza, per quanto incredibile fosse, la descrisse con estrema precisione. Cominciò a preoccuparsi solo quando si vide incatenato e bloccato in una celletta per essere trasferito sulla terra, il suo bel pianeta blu ricoperto da oceani, montagne, foreste: era proprio lui, non c’era alcun dubbio! Il desiderio di riabbracciare la sua Emily cresceva attimo dopo attimo, non vedeva l’ora e null’altro aveva davvero importanza.

Ma le rivelazioni non avrebbero tardato: arrivarono tutte insieme,  più violente di un pugno nello stomaco, dirette, inequivocabili, definitive.

Restò incarcerato, chiuso in una piccola cella, anche a terra. I suoi inaspettati ed inspiegabili carcerieri avevano occhi enormi, erano calvi e con 6 dita per mano. La voce metallica era dovuta ad una sorta di traduttore simultaneo, che permetteva loro di decifrare tutte le lingue terrestri, anche quelle morte e dimenticate da tempo.

Questa è la Terra?La riconosco, le sagome dei continenti sono evidenti! In che anno siamo?-

La risposta arrivò prontamente, a delineare un baratro di stupore sul suo viso:

Orbita 3245 dalla ricostruzione-

-Ricostruzione?-

-Sì, dopo la quarta guerra mondiale-

Era sbarcato su un pianeta alieno, e neanche troppo accogliente. Sarebbe stato osservato, studiato, vivisezionato: unico e straordinario esemplare di una specie sconosciuta, probabilmente antichissima.

Solo un aspetto di quell’avventura poté risultare consolatorio ai suoi occhi:  il suo corpo e gli studi che ne scaturirono furono un grande contributo per la scienza. Era una rarità, un vero e proprio “fossile vivente”.

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