Racconto di Graziano Lazzarotto

(Prima pubblicazione)

 

 

La sveglia suonò alle 7 e 15 precise, come ogni mattina dal lunedì al venerdì. Era venerdì.  Cesare alzò una mano incerta per interrompere quel maledetto bip. Poi si immerse in un sonno leggero, controllato. Avrebbe tardato un po’ quella mattina. Sognò una ragazza che aveva frequentato molti anni prima. Gli piaceva, ma non aveva combinato quasi niente allora. Nel sogno invece lei ci stava, ma poi c’era sempre qualche ostacolo.

Così si svegliò definitivamente, scese dal letto e smaltì quel po’ di torpore seduto sulla tazza del cesso.

In macchina durante il tragitto verso la fabbrica ripensò al sogno. La ragazza si chiamava Cate, magra con due belle tette. Di faccia assomigliava ad Isabella Rossellini, soprattutto la bocca e gli occhi. Quando la conobbe portava le trecce.

Accese macchinalmente una celtique. Era una buona sigaretta. La prima della mattina faceva un fumo denso, profumato, azzurro come il colore del pacchetto.  Aveva imparato a  fumarla in un giro a Parigi, l’estate precedente.

La strada era piena di traffico, con tir che non lasciavano passare ed automobili come tante formiche in cerca di frammenti commestibili. Sorpassò una ritmo diesel con quattro pendolari giovani. Quello di fianco al guidatore leggeva il giornale, il Gazzettino o forse il Corriere.

I platani scorrevano a destra e sinistra, Cesare pensò a quella sera di fine settembre.

Una vecchia osteria rimodernata male, in collina. Si stava proprio bene di fuori, sotto la pergola di vite, bevendo prosecco col fondo e sparando cazzate.

Quando Cate arrivò, Pietro stava dicendo che le ragazze con le trecce gli piacevano perché  gli davano l’idea che si potesse prenderle da dietro, usando le trecce come una briglia.

Tutti si girarono a guardare e si misero a ridere basso.

Cate era insieme ad un ragazzo con una faccia insulsa e ad una bionda che Cesare conosceva.

Quando i tre entrarono Cesare si alzò in automatico ed entrò a sua volta.

Gli amici smisero per un momento di parlare, poi mentre andava verso il bar li sentì ridere forte. Si appoggiò al banco e chiese a Gigi una mezza nardini. Si girò con il bicchiere in mano nel momento in cui le ragazze stavano esplorando allegramente il freezer in cerca di qualche gelato.

Il cicisbeo sfogliava di gusto un calendario sexy, appeso ad una parete. La stanza era stata imbiancata di fresco ed aveva un buon odore di pittura e vino nuovo.

La bionda sollevò per un attimo lo sguardo e Cesare la salutò alzando il bicchiere. Lei sorrise. Era una ragazza semplice e fatta bene, si chiamava Lisa.

Quando si avvicinarono con i ricoperti in mano per pagare, Cesare chiese a Lisa delle vacanze. Era stata a Jesolo quindici giorni, con alcuni amici in un appartamento. Si era divertita ed il tempo era stato splendido. Non era molto abbronzata.

Gli presentò Cate proprio mentre arrivava quello che le aveva accompagnate. Gli presentò anche Massimo. Ogni tanto Cesare lanciava un’occhiata a Cate. Anche lei lo guardava. Notò che parlava poco.

Il giorno dopo andò direttamente a casa sua. Cate stava in giardino. Leggeva un libro. Ad un semaforo si ricordò che era una fiaba di Cortazar che si chiamava storie di cronopios e famas.

Gliene aveva parlato brevemente ridendo con gli occhi, poi era andata dentro a prendere del vino fatto da suo padre. Cesare aveva pensato che gli sarebbe piaciuto baciare quella ragazza.

Credeva che ogni bacio è in fondo rubato al tempo.

Quando lei ritornò con la bottiglia di prosecco aveva supposto anche che il vino è un buon sistema per dimenticare il tempo che passa per ogni bacio. Il vino fresco e buono. Come quella ragazza.

Cate stava aspettando Lisa per andare in città a fare delle compere

C’erano molte svendite interessanti in quel periodo. Cesare le chiese se usciva con lui dopo cena. Lei gli disse semplicemente di sì.

Non aveva voglia di vedere gli amici quella sera. Così cenò da solo in una pizzeria fuori mano. Poi, alle 9 e mezzo suonò il campanello con il cuore che batteva. Lei uscì fuori di corsa con fare complice e salì nella cinquecento. Cesare scelse come sottofondo una cassetta di Leonard Cohen. Si guardarono per un istante, lei sorrise. Gli disse con voce un po’ incerta che aveva un pezzetto di hascisc, libanese rosso. In quel momento pensò che magari era uscita con lui solo per quello.

Non aveva mai fumato quella roba, ma fece finta di niente.

Arrivarono allo spiazzo che Cohen stava cantando” Bird on the wire” e non si sarebbe più dimenticato quel particolare.

Lei arrotolò la canna un po’ maldestramente.  Tirò fuori la scusa della luce scarsa.  Era molto giovane e molto carina.

Il fumo sapeva di rosmarino o forse salvia, e incenso. Non era così male. Cesare si sentiva un po’ intontito, come quando aveva bevuto un po’. Senza rendersene conto le prese le mani.

Erano calde e tenere. Il calore delle mani non ci mise molto a trasmettersi allo stomaco.

Cate si abbassò e appoggiò due labbra morbide sul suo dito indice, poi cominciò a muoverle su e giù con un movimento molto lento. Cesare aveva voglia e paura che lo leccasse. Fecero l’amore con le mani. Era come fare l’amore.

Continuarono a giocare con le mani per molto tempo, ma sempre piano.

Cesare abbassò del tutto il finestrino della macchina. Fuori faceva fresco. Pensò che l’estate era proprio finita.

Girò la cassetta e mise in moto la macchina.

Arrivò davanti alla fabbrica che era appena finito il giornale radio. Attraversò a piedi il cortile e poi l’ingresso della palazzina uffici.

Dopo aver timbrato il cartellino si fermò un attimo davanti all’orologio. Aveva 20 minuti di ritardo quella mattina.

Pensò che avrebbe fatto un po’ di straordinario per compensare i minuti persi, ma non di venerdì. Percorse il lungo corridoio sovra pensiero.

Quando entrò nello stanzone la dattilografa giovane gli andò incontro. Ti ho sognato questa notte-disse- che parlavi in una assemblea di fabbrica. Dicevi una cosa che a pensarci adesso fa proprio ridere.  Dicevi qualcosa a proposito degli impiegati, che sono come aghi di boiler, che poi sarebbe lo scaldabagno.

Cesare sorrise con gli occhi, ma non disse niente. Poi sedette alla scrivania, aspettò che la dattilografa se ne fosse andata e aprì il corriere alla pagina sportiva. L’Inter aveva subìto il pareggio a due minuti dalla fine, dopo essere stata in vantaggio per 2-0. Proprio sfiga.