Racconto di Mauro Bennici

(Prima pubblicazione)

 

 

— Tornare sul luogo del misfatto è prerogativa di ogni criminale. Saggezza dello stesso è farlo dopo l’avvenuta prescrizione del reato. Vantarsi del proprio gesto, un obbligo. Lo confesso, sono stato io:

Era il 1988, una domenica d’estate. Il guardiano ci seguiva con scarsa attenzione. Un gruppone di vecchietti, con due nipotini ad abbassare la media biblica dell’età, non era un campanello d’allarme. I giovani delle scuole medie e superiori, pane duro da mordere con cautela, arriveranno domani.

Non lessi, se ve ne era uno, il cartello che vietava l’ingresso al maestoso edificio che domina l’area da oltre tre millenni. Ero giovane, come sapete, e inesperto, non vi è dubbio. Così, il mio introdurmi furtivo fu subito notato dal mio, purtroppo, compagno di viaggio: altra pasta lui, futuro paracadutista. Segnalò l’intrusione con una serie di urla e mi corse appresso per fermarmi: l’eterno gioco del ladro e dell’immancabile guardia alle sue calcagna.

Il terreno accidentato e costellato da immense pietre e marmi agevolava la mia fuga. Continuavo a sterzare all’improvviso per mettere in difficoltà il mio inseguitore. Era più grande di me di due anni e, viste le sue lunghe leve, in campo aperto sarei stato spacciato. A un passo dall’uscita, quando il bosco era ormai a vista, la mia illusione di salvezza si tramutò in gelida sconfitta. Da supereroe, a metà tra l’intrepido Indiana Jones e il pelide Achille, che avrebbe sicuramente trovato posto nell’Olimpo della bionda Pollon mi ritrovai… Willy il coyote. Proprio sulla soglia, il passo mi fu fatale. Caduto in trappola, con tutti e due i piedi nel cemento fresco.

Mai! Lo giuro. Mai, mi sarei aspettato che un’opera d’arte che il mondo intero ci invidia potesse essere deturpata con del banale cemento fresco, e il tutto per fermarmi. Mai, eppure lo hanno fatto e mi hanno preso.

Con un piede piantato nel grigio e l’altro, sporco, sollevato a metà, aspettavo la mia fine. Fato volle che il mio inseguitore toccasse impercettibilmente anche lui la trappola e divenisse, in un solo istante, complice. La giustizia della nonna sarebbe arrivata rapida e implacabile, senza processo o giuria: piede sporco, colpevole. La pena? Un paio di mal rovesci con anelli inclusi. E lui sapeva che ne avrebbe presi di più, al più grande spetta sempre la fetta più grande.

Sembravamo due statue pronte per essere esposte in qualche polveroso museo, ma il nostro tempo stava per scadere. Il guardiano, quello vero, era già sulle nostre tracce grazie al mio compare e lui, l’onesto, se ne stava fermo con quell’aria da “e adesso?”. Ingenuo, sempre a fare la cosa giusta, sempre dalla parte delle regole, lui. Con un sorriso beffardo sul volto iniziai a comandarlo a bacchetta con mezzi sussurri e gesti rapidi della mano sinistra, mentre usavo la destra per restare in equilibrio: salta su quella, passa di qui, vieni da là, prendimi la mano e tira.

Dietro di noi, le mie impronte ben distinte, chiare al sole di mezzogiorno. Maledizione, le prove che mi avrebbero inchiodato erano lì e non potevo fare nulla per cancellarle. Entrammo nel bosco un attimo prima che il guardiano e la nonna facessero capolino e iniziassero a cercarci in giro e a chiamare i nostri nomi. Il momento della verità era arrivato. Uscimmo dal nostro nascondiglio, e con il viso e l’intonazione più innocente possibile dissi:

«Siamo qui, che c’è?»

«Cosa state combinando? Cosa è successo? Perché gridavate?» un coro di domande confuse emerse in fretta mentre con gli occhi scrutavano ogni angolo dei nostri corpi.

«Stiamo giocando» dissi esasperando l’attesa per celare l’impazienza della scusa che tradisce i bugiardi.

«Dove cavolo sono finite le scarpe?» la voce della nonna era un ruggito.

Guardavo, con la coda dell’occhio, il mio complice. Mai fidarsi di un onesto, si sa come va a finire: non fanno mai quello che gli si dice, parlano. Alla fine… confessano.

«Le abbiamo tolte perché… correndo ci entrava sempre qualche sasso.»

Perfetto, ha ripetuto la battuta in modo perfetto. E poi, ha detto la verità sui sassi. Io non sarei stato così credibile.

«Andate a prenderle, mettetevele e muovetevi che andiamo a vedere il teatro, in cima.»

«Sì, nonna.»

Qualche sbattone sulla corteccia di un pino e una bella passata sopra la terra ed ecco che i miei sandali avevano acquistato una seconda suola di cemento marrone. Il camuffamento doveva durare solo qualche istante, il tempo di correre via verso il monte che sovrasta la vallata. Forti dei nostri anni, guardavamo il gruppo che arrancava tra uno sbuffo e una preghiera. E dall’alto, seduti sui gradoni del teatro, ci godevamo esausti l’adrenalina di un colpo perfetto!

— Ah! Quindi non nega che quelle siano le sue impronte!

— No, non lo nego, anzi, io quelle impronte le rivendico!

— E tutte quelle storie sul fai il bravo, papà?!

— Ehm… cosa? Dicevi?

— E cosa racconterò ai miei nipoti? Che avevo un papà monello?

— Digli… che non ho lasciato le mie impronte sul viale delle stelle di Los Angeles, ma nel tempio greco di Segesta!