Racconto di: Michele Morrone

(Seconda pubblicazione – 28 aprile 2019)

 

…egli giustificava avanzando i suoi diritti di poeta,

di creatura cioè tenuta, per sua dannazione,

a scoscendersi per l’inferno

come a volitare per il paradiso. (Landolfi)

 

Eccentrico lo era, proclive all’apocalittico pure e devastante quanto basta a esercitare scompiglio e tensione ai nervi propri, che già tesi dai troppi clamori dei ricordi si stendevano sulla superficie persecutoria a intercettare piccoli segnali allarmanti, camuffati di tranquillità in chiara ed evidente “messa in scena” del disagio esistenziale con non poche metamorfosi repentine, atte a sollecitare qualche sostanza interna a garantirgli una nottata pacifica, che lo facesse dormire almeno 3-4 ore di seguito, senza sprofondare, appunto, in quel lentissimo calar di palpebre che non ti fa prendere sonno e quando uno non dorme, veglia in attimi che sembrano eterni. Non finiscono mai! E come un sortilegio sfrondato da una mannaia, diventa tutto più chiaro. Ma che fatica! Sconfiggere interi battaglioni di crocerossine che camminano sui pattini a rotella; carismatici intenzionati a farti svenire convincendoti che Dio è sempre lì pronto, Chi è? Non aveva mai spostato oggetti con la sola forza del pensiero e nemmeno aveva mai avuto qualche chiamata dall’alto. Solo dal basso. Convincendosi sempre più, che se il basso esiste, allora esiste pure l’alto. Satana, è una prova evidente che Dio c’è (magari, si parlasse d’eroina). Esaurimento nervoso si chiama. Mischiato all’amore suo di farsi una pera d’eroina e che lui non voleva più. Non c’era più niente da fare, o passava all’azione nel senso che doveva iniettarsela esaminando la questione da tutti i punti di vista, o si prendeva dei sonniferi. Sant’Iddio! Ma cosa s’era messo in testa? Che il mondo senza di lui non ce la potesse fare? Oscillava come un pendolo messo in orizzontale bucando prima le profondità della terra – ehi là, Mefistòfele – per poi raggiungere sospiri cristallini di luce eterna… Altalena del delirio! – Che strano qua – Dormi! – Io sono il già detto che si ripete diversamente -. Questo suo sentirsi non originale, non dissimile dal generico umano, lo indignava a tal punto da trasformare questo assioma in un ridicolo frangente andato a male e buttato nel dimenticatoio. Fosse stato vero… Aveva preparato tutto. Come un rito. C’era la siringa appesa al lampadario già contenente l’eroina e figurandosi scisso da se stesso cioè separato da sé, diviso in due, sdoppiato, che la psicologia definisce “Manifestazione Dissociativa della Personalità e Schizofrenica del Comportamento”, si puntava il dito addosso, accusandosi – Non ti accorgi che gli umanoidi ti stanno appiccicati sulla pelle? Che devo fare, spellarmi? Non è il caso. Basta farsi una bella dose di “Surrealismo” in vena e vedrai come l’epidermide te ne sarà riconoscente -. Prese la siringa, facendosi segno che era roba di prima qualità e se la iniettò. – Come ti senti adesso? Bene grazie, adesso sto decisamente meglio -. Poi riprese la siringa e se la iniettò di nuovo al solo scopo di tirarsi il sangue e spruzzarlo dappertutto, ma lo spruzzò solamente sul pavimento. – Ma che fai? Sei impazzito? Calmati! (Ridendo come un folle) Devo assolutamente riempire la stanza, di un tutt’altro modo di percepire le cose… – Si sdraiò sul letto e si fumò 3-4 sigarette una dopo l’altra. Poi si alzò dal letto, si specchiò e si disse: Vestiti di ostilità! Era chiaro che doveva occuparsi di se stesso. Anche se era autosufficiente. Il che non era una mansione difficile. Non gli serviva di certo una madre crocerossina, ingombrante e un po’ dadaista. Come un padre jazzista taciturno libero e fin troppo assente. O una sorella totalmente sua devota. Piuttosto avrebbe barattato quella microscopica aleatoria parvenza d’agonia svenevole in cambio d’una storpiata reminiscenza dallo splendore spensierato… L’eroina saliva. Lui vomitava bile. E davanti a un muro della dismessa dei tram sulla Prenestina scrisse con uno spray – E l’iride giocondo recinse con i suoi colori la pianura del tormento. Dimessi segreti imbellettati di rosso risorsero santificati grazie all’ordine sparso dei ricordi melliflui.

– AO… CHE CAZZO STAI FACENDO STRONZO?

Dario scappava fino a raggiungere l’isola pedonale del Pigneto dove trovò una sua conoscente di nome Moline che se lo abbracciava e sbaciucchiava facendo domande del tipo: Come mai hai gli occhi a spillo? Come mai hai un colorito cianotico? Non mi dire che hai di nuovo fatto uso di eroina? – Si vede? – Mannaggia a te… Ecco ci risiamo di nuovo. Capacissimo a balzare, convintissimo che fosse in avanti, per scarso possesso d’avvedutezza sincronica, con capriole surreali, s’era scaraventato all’indietro, senza perdere neanche un momento nell’affrontare le dinamiche (ben custodite nello scrigno dell’indifferenza) di come inoltrarsi al di là della fitta e precaria condizione di una gioventù abbattutasi nella più totale spensieratezza dell’età che avanza. Di come scardinare la questione temporale dei ricordi lontani, che si facevano sempre più consistenti grazie a subatomici strati di collera esplosiva atti a debordare la fiumana della psiche praticamente invasata dai ricordi stessi. Ma più si frantuma il meccanismo, e più si rafforza. La struttura mnemonica prende corpo, sviluppa energie, alzando altre forze correlate da altrettanti sensori comunicanti che filtrano oltre il vetro della paralisi psichica e arrivano dritti al cuore del sensazionale di tutto ciò che è; Fantasia. Scatenano il putiferio, e da ciò che è semplicemente crepato, creano spifferi di desiderio rimettendo in moto l’ingranaggio che si auto genera, potenziandosi! – Darioooo… Darioooo… – Che e’ stato? – Ti stavi bruciando con la sigaretta. – Ah si? – Ma quando smetti di farti? – Oggi e’ l’ultima volta, giuro! Da lunedì nuova vita. – Si sì. Dici sempre così.

Quindi, saper accettare la noncuranza dell’afflato comico, tergiverso improcrastinabile affanno temporale, come Don Chisciotte che sfida, damigiane tronfie e marionette possedute, che accettandola tale convinzione indefessa (e ziàta) fa arrecare una forza devastatrice senza considerare l’evento in sé, fautore d’una risata universale. (Don Chisciotte il grande.) Alla ricerca di mettere la questione in chiaro, una volta per tutte, e vendicare eternamente volte il subìto torto dalla frenesia esistenziale (gravida vetusta cosmopolita indecenza – raffinata insonnia assassina del moto vivere in corpore sano) si era messo a bollire quadri psichedelici nel colore onirico sacrificale come vittima volontaria della rete psicoanalitica. Immergendosi fluido squagliato nell’acquoso mondo dell’autoanalisi, scalpitava dalla voglia di precipitare su un fondo di chiodi. Voleva perforare l’acume stesso dei ricordi. Impalare i vecchi cataplasmi capotavola (quando nei giorni di festa si mangiava assieme al resto della famiglia) che cacavano sfacciatamente la loro prosopopea carica di repressione atavica, sbattendo il pugno sul tavolo per marcare meglio le loro sciabolate politiche elogiando chi i capi di centro, chi i leader di destra e chi quelli di sinistra: perché voi…ma noi veramente… piuttosto voi… Voi dovreste mettervi una mano sulla coscienza, se ce l’avete… ma state zitti, fateci il piacere, che se non fosse stato per noi… Si facevano di una collera così perniciosa da farli venire quasi un colpo apoplettico. Difatti le vene delle fronti e dei colli erano così gonfie e rosse che pure le facce parevano stessero da un momento all’altro per scoppiare. Ma implodevano! Chi con l’ulcera, chi con le coliche renali e chi col tumore alla prostata… Ah, quei maledetti giorni di festa! Non la si finiva più di raccomandarsi di non parlare né di politica e né di calcio. Si trovavano dentro una fraschetta. Ubriacate strutture cerimoniose cariche di iniziazione. Giusto per riprodurre quel sottile ripiegamento certosino, che padre pigmalione nel voler nutrire la sagacia presa di coscienza in crescita – sovrastruttura dell’intimo immaginario – indottrinava e induceva ad allenarsi per formare il carattere a frequentare con egli, fraschette di ogni risma, per poi gonfiarsi d’orgoglio che Dario potesse in un tempo futuribile diventare un emerito blasonato lurco. La madre ovviamente disapprovava l’evoluzione della specie tramite la frequentazione di beoni primitivi. La madre consapevole, (e se ne dà atto) di sprecare tempo, energie e dolcezza con un imberbe ubriacone lavativo intuitivo e bestia come il padre, lasciava correre “tale padre tale figlio”, e si dedicava a prendere nota di tutti i prodotti pubblicitari che venivano proiettati dalla TV e quando si trovava a fare la spesa nei super mercati, rigorosa e attenta comprava tutto quello che non apparteneva alle marche dei prodotti che lei aveva appuntato su carta. Erano tutti alcolizzati i parenti di Dario. La madre beveva con metodica passionale. Non si faceva male. Smeraldo. Allora Dario che indispettito e stupefatto verso tutti, non si capacitava di come si possa essere disaccordi a non voler farsi carico della responsabilità che la civiltà sola com’è, non ce la può fare senza la partecipazione della collettività tutta, inclusa la partecipazione dei presenti commensali a presagire un quadro non tanto raccomandabile a tutti quei poveri sventurati rivoluzionari libici egiziani tunisini e algerini, male informati a credere come degli allocchi di navigare sui riflessi dei diamanti rubati alla cristianità soppressa, conquistando l’occidente se l’occidente non li stermina prima, mentre pregano da bambini, facendoli zompare come monchi disabili su una gamba sola, grazie all’aiuto umanitario delle mine antiuomo (altruismo inculcato dalla sovranità depravata per mantenere il prestigio e il dominio sui popoli tanto bisognosi eh eh…) e si aspetta fra non molto anche il popolo marocchino voglioso di piegarsi alle sadiche ospitalità delle varie terre europee altrettante accondiscendenti di mandarli in solluchero con tranquillanti eretici di matrice orientale romano impero e portarli sulla strada del ravvedimento riscatto sociale… – Fai poco il romantico! Hai capito?! Gli aveva detto lo zio di Dario, a Dario. Era truce. Non c’e bisogno di incoraggiamenti inutili o commenti irritanti. Cambio di rotta. La scelta è quella etilica! Formaggi prosciutti e salami appesi su una corda di rame. Personaggi tipo i quadri di Bosch e donne versiere piuttosto che virago (maschietta), a meno che, non le si paragonino a un contesto mitologico come in questo caso lo è. Parecchie zie di Dario sembravano degli uomini. Con quei baffi. Ma altre zie erano delle belle donne. E pure le cugine delle belle figliuole. Carbonara, affettati, coda alla vaccinara, baccalà in guazzetto, coppiette, abbacchio, vino a volontà, stornelli, e con un atteggiamento provolone (ci provava con tutte le cameriere e con le fidanzatine di altri cugini) Dario da grande attore, ancora non consumato, scimmiottava la propria crisi esistenziale, parlando di sé e dei propri fallimenti, e si esaltava in un turbinio vertiginoso fino a dichiarare, senza temere l’eventualità di un contraddittorio, che ciò che un fallimento scaturisce è materia inestimabile carica di ispirazione. Sovèrchio imponente iperbolico inferocito umanoide paradosso si convinceva sempre più, che più si è inefficiente, futile, virulento, contestatario, aggressivo, ma impegnato, e più si ha a che fare con l’onnipotenza semidivina del personale insuccesso che ti garantisce la sopravvivenza fino alla sazietà, in questa zozza società… – OSTE! – Ma che ce frega ma che c’è… – Faceva quella faccia come se avesse voluto far capire che i presenti del banchetto, si trovavano di fronte colui che per sbaglio aveva fatto sentire le proprie idee. Schifate le facce dei commensali. Invidiosi tronfi catatonici frequentatori di caverne dal quotidiano grottesco. Nugolo decrepito di carogne e di difetti nel marasma della crapula. Energie diverse. Forze contrastanti. Micidiale alchimia! – Dario, Dario, Dario! (Voce sommessa) dai dai O O O -. In panciolle lui. – Sciìiìiùuùuù (voleva dire, stai zitta). Il giorno dopo doveva andare a lavorare, quindi, salutò la sua amica con un abbraccio. Tornò a casa Dario, e diede una pulitina per terra togliendo le macchie di sangue che stavano sparse sul pavimento. Si addormentò dopo aver fumato sigarette e canne intervallate dall’ascolto di musica Dub, dubbing jah, dry wood dub, plastic dub (happy), the builder stone etc, Mad Professor. Aveva una compilation. E una bottiglia d’acqua. S’addormentò con questa musica e sognò, che da dentro una vasca d’una fontana, alle pendici di un monte, sbucava una luce fioca emanata da un’aragosta bianca, e Moline in costume da bagno con l’asciugamano sulle spalle che avvicinandosi all’aragosta bianca si buttò dentro la vasca della fontana facendo perdere l’equilibrio a quell’umido cupo barlume disperatamente. La luce si affievoliva sempre di più e l’aragosta bianca s’era poggiata sull’asciugamano di Moline, ma Moline a rallenty (effetto Cinecittà) stava lottando con schizzi d’acqua che la trattenevano dal tenersi a non perdere la calma, ma l’aragosta bianca le fece perdere l’equilibrio e caddero nella fontana. Buio e giorno. Giorno e tramonto. All’alba non c’era né Moline né l’aragosta bianca e né la fontana. C’era soltanto l’asciugamano. E un sole cocente sulla testa di Dario. Raccolse l’asciugamano. Si fece notte. Cercò di farsi luce ma il buio si intensificò. Poi s’aprì una voragine e dopo non molto ci fu un’eruzione fatta da miriadi di lucciole che sospese nell’aria si raccoglievano dando una forma precisa del suo volto. Se la guardava l’immagine sua lampeggiante che gli disse: – FUOTT-TI’NN! – Si svegliò con le lucciole che si spegnevano una ad una sparendo, tutto sudato e con lo stereo acceso. Space frontier come sottofondo.