Racconto di Isa Ligabue

(Terza pubblicazione)

 

Cento anni fa la storia di una donna sull’orlo del baratro come tante di noi oggi.

 

Evelina era zoppa da quando era nata; un’anca lussata la rendeva claudicante. Era un’eredità che veniva data a caso alle donne della sua famiglia e questa volta era toccato a lei. La gamba più corta, come diceva, le aveva segnato il destino e l’aveva resa molto presto disincantata nei confronti della vita. I suoi bei capelli neri e lucidi come seta, gli occhi dolci, scuri e profondi da dare il capogiro, l’arguzia nel parlare, la mente sveglia, non contavano nulla. Con gli anni si era sentita divenire a poco a poco come invisibile e si era svuotata di significato.

Quella sera di ferragosto, Evelina non aveva voglia di niente: né di ballare, ne’ di compagnia. Era triste, di un malumore sottile e infido che, da qualche tempo le aveva annerito i giorni. Sentiva sulle labbra il sapore amaro dei baci rubati, vedeva i lividi sulle sue cosce, sulle braccia, sui seni e cominciava a divenire consapevole di essere sempre stata usata.

Eppure prima le andava bene. Si sentiva potente, importante e libera. Si era anche convinta di avere una sorta di controllo quando usava gli uomini per sè. In questo giro sulla giostra della vita c’era poco altro che la facesse stare bene. Ma quella sera, a venti anni, come una stella cadente che attraversa veloce il cielo, sentiva di essere la sola a dare, una parte di un ingranaggio che non riusciva più a fermare e non si divertiva più. Si sentiva più vuota e sola di prima che tutto iniziasse, quando era ancora una bambina, ma le punte dei seni cominciavano a premere sotto la camicia.

Cercava le uova delle galline nel fienile, uno dei suoi compiti in quella piccola comunità che era la sua famiglia e la cerchia dei lavoranti a giornata e stabili alla Cascina vicino al Lambro. Andava ai nidi che conosceva a memoria, nel chiarore ancora abbagliante di un pomeriggio d’estate, di quelli fermi e caldi che risvegliano tutti gli umori dei corpi. Il sudore le aveva imperlato la fronte, bagnato i riccioli sulla nuca e le goccioline scorrevano sulla pelle del suo collo al petto, sotto la stoffa della camiciola bianca, verso quel solco che separa i seni. Quel bracciante di casa, silenzioso e scuro, che la guadava sempre mentre si arrotolava una sigaretta e si riposava dalla fatica avvolto in una nuvola di fumo, era comparso all’improvviso dietro di lei, l’aveva presa in vita da dietro e con una mano le aveva chiuso la bocca. Rovesciarla nel fieno come una bambola di pezza, alzarle la gonna e abbassarle le mutande era stato quasi in un unico gesto circolare sotto il suo peso. Lei non aveva neppure resistito, paralizzata dalla paura, senza fiato, il respiro sospeso, con gli occhi spalancati  e le pupille dilatate su quel volto sudato, sconvolto.

Ripensandoci poi, mentre ormai sola si puliva dal sangue e muco, aveva deciso che non avrebbe parlato con nessuno di quanto le era successo, anche se lui non glielo avesse intimato in un soffio aspro, guardandola dritto in faccia prima di andarsene.

Aveva vergogna di un qualcosa di scabroso che intuiva e poi sapeva che gli altri non avrebbero mai creduto che fosse del tutto innocente.

Non lo credeva neppure lei mentre le lacrime si mischiavano al sudore.

L’aveva sentito dire tante volte dalle donne di casa che “se una era a posto, certe cose non le succedevano”.

Quell’unico evento le aveva fatto oltrepassare un confine invisibile e le aveva insinuato una curiosità morbosa. Qualche giorno dopo era tornata deliberatamente al fienile; quando lui l’aveva raggiunta di nuovo alle spalle, questa volta si era girata da sola e, con il cuore impazzito, aveva aspettato la sua mossa successiva guardandolo negli occhi con aria di sfida.

Aveva così continuato ad andare e ad accettare quell’uomo sopra di lei e fra le sue gambe, anche nelle settimane e nei mesi successivi. Per Evelina era come dimenticarsi di tutto per un attimo di intenso godimento. Da dove le venisse, cosa ci fosse oltre le poche parole incomprensibili, tra i respiri affannati, non sapeva dirlo. Di certo non c’era nessuna tenerezza da parte di lui, che se ne andava senza guardarla, abbottonandosi i pantaloni. Eppure, in quei momenti di abbandono, quando lui le sfiorava con le dita ruvide i seni acerbi, le spalle, i fianchi, Evelina sentiva di essere diversa dalle sorelle e dalle amiche, piena di energia e forza potente.

Per qualcuno non era più invisibile e vuota, anche se era zoppa.

Poi, di colpo, quell’uomo non si vide più per casa anche se la stagione non era terminata. Era stato mandato via. Forse qualcuno li aveva visti, anche se con lei non parlò nessuno. Mai.

Così Evelina aveva continuato a percorrere la direzione che aveva ormai intrapreso, o almeno l’unica che la facesse sentire bene. C’era sempre qualche uomo. Non era difficile attirarli e averli: lei aveva lo sguardo che parlava.

Fra le frequentazioni amorose di Evelina, era tornato da qualche tempo anche Marino. L’amava da quando erano bambini alla cascina ma lei non lo guardava mai. Anche lui si sentiva enormemente solo, dopo che aveva perso quasi tutta la sua famiglia tra le trincee e la febbre spagnola, ma a differenza degli altri, quella ragazza gli piaceva davvero tanto, così come era.  Anche lui era stato con lei come gli altri uomini, ma a differenza di loro, davvero la sentiva nel cuore.

Si erano rivisti ad un matrimonio ad agosto. Quella volta Evelina gli era rimasta seduta accanto per tutto il tempo della festa, malgrado avesse bevuto decisamente troppo. Marino sbirciava nella scollatura generosa del vestito di raso giallo che nulla lasciava all’immaginazione, le parlava sempre più vicino, l’attirava a sé con la scusa di farsi sentire in quel baccano e le toccava le spalle, le braccia, le cosce e ogni volta gli tornava in mente l’immagine di loro due nell’intimità, ormai tanto tempo prima, prima della guerra appena terminata.  Aveva ancora negli occhi la sua pelle nuda, nelle orecchie la sua risata roca. Nel naso e nella bocca il suo odore. Ora la sua sfacciataggine triste, i finti rimproveri, gliela rendevano ancora più attraente, irresistibile e lo stordivano di più del vino.

Non la smetteva di fare battute, raccontare storielle sciocche a chi non voleva più sentire e rideva. E lei con lui.

Ricominciò ad andare da Evelina a mendicare un po’ di calore: lei a volte non gli apriva, a volte si faceva pregare a lungo, poi spalancava improvvisamente la porta e lo accoglieva con quella sua risata ironica e triste, e lo trascinava così sul letto di ferro cigolante, avvinghiato a lei a coprirla di baci, di morsi, di parole incomprensibili, disperato, affamato.

A volte gli gridava in malo modo dall’uscio chiuso sulla ringhiera di andarsene e di lasciarla perdere.

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