Racconto di Emanuele Ninotti

(Prima pubblicazione – 23 febbraio 2021)

 

 

 

 

La noia mi attanagliava, stretto, sdraiato sul prato, sopra un telo bianco.

Sotto il sole, pensavo “Esistere, in questo mondo, ora, che significava?”

Non riuscivo a trovare una risposta e allora mi misi a scandagliare accuratamente me stesso.

Vagavo e mi contorcevo pensando.

Era difficile in quel momento trovare uno slancio: tutto ciò che passavo ad una attenta disamina, nel mio animo, non mi suggeriva granché, se non che io esistevo e basta, per necessità; ma, dal momento che i bisogni sono appagati, ci resta poco per giustificare la nostra presenza.

Iniziai a cercare qualcosa che mi desse una spinta positiva, di quelle che ti danno una zaffata di aria fresca e stimolante, che ti smuovono dall’inerzia e ti gettano nella mischia a spintoni.

Le circostanze mi portarono a pensare a Raissa. La bella Raissa, niente di misterioso o aureo attorno a lei, soltanto una bellezza spiazzante.

La prima volta che la vidi fu all’entrata della Facoltà di Giurisprudenza, nella città universitaria, un grande parco attraversato da strade, con palazzi che spuntano qua e là.

Non mi è mai piaciuta la città universitaria: gli edifici sono vecchi e manca d’armonia, l’aumentare dei discenti ha portato la necessità di allargare i locali e pertanto ci sono cantieri ovunque, una frenesia edilizia accompagnata da un via vai di studenti annoiati.

Al centro della città svetta solitaria la statua della sapiente Minerva, innanzi al palazzo del Rettorato; non c’è studente che osi guardarla negli occhi, si corre il rischio di non laurearsi mai.

Con soddisfazione il giorno in cui discussi la mia tesi e fui dichiarato dottore in giurisprudenza, potei salutarla amichevolmente, posando il mio sguardo sul suo.

Era autunno, le lezioni appena ricominciate dopo la sessione d’esami estiva; quella mattina pallida portava con sé un’aria fresca, temporalesca, come per preannunciare la fine della canicola d’agosto: una promessa d’acqua e umidità.

Avevo salito i scalini che portano all’ingresso a due a due per la fretta, la lezione di Diritto Processuale Civile, spirati i dieci minuti accademici, stava per iniziare.

Giunto al patio innanzi all’entrata, la vidi, sotto la targa commemorativa degli studenti che protestarono durante il ’68.

Sedeva su di una panchina di travertino bianca scolorita dal tempo, fumava una sigaretta e leggeva il Manuale di Diritto Internazionale, pareva che la corrente incessante di persone che entravano e uscivano con il sottofondo del loro chiacchiericcio non la disturbassero affatto.

Ebbi occasione di incontrarla ancora, a lezione e in biblioteca; ci scambiavamo degli sguardi innocui, iniziammo anche a salutarci.

Una mattina invernale fece il primo passo: si accostò al tavolo sul quale stavo chino, immerso nella lettura di un grosso manuale giuridico, mi toccò la spalla col suo modo di fare grazioso, distolsi l’attenzione dalla lettura e volsi il capo al mio lato, la vidi che sorrideva, gli occhi scuri sprigionavano una certa timidezza, ma anche serenità.

Mi invitò a prendere un caffè al bar della città universitaria. Le risposi di rimando con un sorriso; accettai, chiusi il libro e presi il cappotto.

Ci avviammo in silenzio verso l’ampia porta di ingresso dalla quale faceva capolino l’aria gelida di quella mattina di dicembre.

Vidi che si strinse nel cappotto per ripararsi dal freddo, sempre con grazia, non poteva farne a meno.

Il sole invernale ci colpì in pieno volto quando fummo all’esterno, mite il calore dei suoi raggi, sopraffatto dall’umidità circostante.

Proseguimmo verso il bar, passando per i viali alberati costeggiati dai palazzi di altre facoltà: iniziammo una conversazione per stemperare la tensione, discutemmo degli esami che stavamo preparando, di quanto fossero difficili; le gote le erano diventate rosse per il freddo, così anche l’estremità del suo piccolo naso, con le labbra vermiglie tutto era in una perfetta assonanza cromatica: il viso serafico ed i cappelli scuri, sciolti, che pendevano ai lati del suo viso, quel rossore le stava benissimo.

Glielo feci notare con una battuta, accennai che le donava, lei rispose dapprima con un timido grazie e poi, per l’imbarazzo che le aveva provocato quel complimento velato, si apprestò a continuare la conversazione.

Mi disse che lavorava part-time in un negozio di abbigliamento femminile, in Via Nazionale, ne elogiò i molteplici lati positivi.

La manager onesta, la variopinta clientela e soprattutto la paga, che le permetteva di provvedere all’affitto di un piccolo monolocale; il lavoro le aveva consentito di ritagliarsi un intimo spazio di libertà.

Sebbene studiasse legge e le sue aspirazioni fossero più elevate, mi raccontò che investiva tutta se stessa nella mansione di commessa e mai le era passata per la testa l’idea che ciò che stava facendo non era consono alla sua persona: possedeva una genuina umiltà.

La paura di rimanere impantanata in un lavoro non soddisfacente e al di sotto delle sue possibilità non la toccava minimamente, era sicura del suo avvenire, una sicurezza serena, carica di aspettative, ma anche di una calma inamovibile che le permetteva di rimanere in equilibrio tra il presente e il futuro.

Prendemmo il caffè: le parole, gli sguardi e i gesti che ci scambiammo furono gli ingredienti per un’intesa che sarebbe cresciuta nei mesi successivi.

Raissa entrò nella mia vita sconquassando gli equilibri sui quali mi ero aggrappato fino a quel momento; il tempo non seguì più una linea retta.

Riscoprii semplici azioni quotidiane come se le facessi per la prima volta: cene, passeggiate, serate al cinema oppure in camera ad ascoltare musica, tutto si presentava come nuovo.

Facemmo l’amore: nella camera illuminata timidamente da una abat-jour ci baciavamo in piedi, accanto al letto. Ci spogliammo, adagio, come se volessimo assaporare ogni istante il più lungamente possibile. Le sfilai la maglia bianca e poi sbottonai la mia camicia. Raissa mi abbracciò, colta da un improvviso timore, dettato dalla nudità. Poggiò il viso sul mio petto, di lato, porgendo l’orecchio per ascoltare il ritmo del mio cuore. Le baciai la tempia e le accarezzai i capelli, la odorai profondamente in un’estasi d’aromi. Tirò su il viso e mi carezzò le labbra con le sue. Ci sdraiammo; unimmo i nostri corpi scrutandoci e toccandoci, facemmo l’amore.

Col tempo s’insidiò sibillino il dubbio che porta seco la paura e la delusione.

Come scrisse con limpida chiarezza un grande autore, ci sono due tipi di amanti: lirici ed epici.

Credo di rientrare nella prima: nella donna cerco il mio personale ideale d’amore, ma non lo trovo, mai; urto contro la realtà, deluso, mi appiattisco come un fiore sotto un’incessante pioggia.

Così mi allontanai da Raissa, divenni incostante. Dovetti recarmi all’estero per studiare e afferrai quest’occasione per frapporre una distanza fisica oltre a quella che avevo creato nei sentimenti.

La nebbia della mia inquietudine mi fece perdere lucidità: iniziai a pensare a Raissa in modo differente; tutto si amalgamò in una totale confusione.

La salutai all’entrata del Terminal dell’aeroporto, varcai la porta senza voltarmi.

Rompemmo qualche mese dopo.

Ora, schiacciato dal calore del sole, mentre mi scioglievo in mezzo ai fili d’erba, accaldato e imperlato di sudore, si palesò tutta l’insensatezza del dubbio felino che mi aveva irretito. Adesso coglievo tutto: dall’essenziale al superfluo, una tensione tangibile.

Mi spostai sotto l’ombra del portico per sfuggire alla canicola, sedetti sulla panca di legno e accesi una sigaretta.

La sigaretta piano piano si consumò: all’estremità la cenere riluttante dal cadere, sbucciata, mi sembrò un insieme di lembi grigi che penzolavano morti, dentro, la piccola brace arancione, ardente; un’immagine triste.

“Che fare?” mi domandai, “Andare da lei e parlarle sinceramente? Confessarmi? Ammettere i miei sbagli?”.

Erano passati sei mesi dall’ultima volta che ci eravamo visti, l’impulso che ora mi spingeva era aleatorio.

Decisi comunque che non potevo starmene in uno stato d’attesa del genere, dovevo capire se residuasse anche la minima possibilità di recuperare ciò che avevo sprecato; l’unico modo per sapere era chiederglielo, guardandola negli occhi; dentro, il desiderio, dallo stomaco fin su al petto palpitante, si faceva strada, calandomi in uno stato di caos.

Il volto di Raissa mi sovvenne e l’immaginazione mi s’incendiò; presi le chiavi dello scooter, misi il casco e partii verso Roma.

Arrivai sulla Batteria Nomentana che porta al centro di Roma: avevo fatto su e giù per quella strada innumerevoli volte, ma, ad ogni occasione, essa mi sorprendeva positivamente: a prescindere dalle condizioni del traffico (certe mattine la strada scompariva, ingombrata da veicoli, l’uno dietro l’altro; l’asfalto liscio non si notava quasi e pareva che le macchine stessero in attesa, sospese sopra il manto stradale; ai guidatori, con tutta probabilità, sembrava di stare in un limbo perpetuo), a dispetto di quanto il bollettino metereologico avesse previsto, quella via mi donava sempre un afflato vitale.

Grazie ai molteplici semafori avevo potuto osservare ogni tratto della Batteria: al suo inizio, spiovono palazzi sprovvisti della più minima forma estetica: parallelepipedi pesanti che sembrano affondare nel suolo, spigolosi, costruiti con il solo scopo di ottimizzare lo spazio interno per il fine che devono servire; poi lo svincolo con la tangenziale, che scorre sibillina sotto il ponte per poi immergersi in una galleria, già il nome di questa strada è tutto un dire, ideate per evitare imbottigliamenti nel traffico, tangenti alla città, hanno come risultato ultimo  quello di  tagliare perpendicolarmente tutto ciò che attraversano, con il loro aspetto scolorito e solitario, spezzando prepotentemente l’armonia di qualsivoglia quartiere. Una volta superata però inizia il tratto piacevole della via: innanzitutto gli alberi, platani altissimi dal tronco chiaro, macchiati qua e là, ombreggiano e adornano il paesaggio circostante con il loro verde adamantino spezzano la monocromia del nero asfalto.

Villa Leopardi nascosta dietro un muro di pioppi scuri, poco dopo, sul lato opposto, Villa Blanc. Altri semafori e tanti Palazzi delle Ambasciate: Albania, Guinea Bissau, Iran e Thailandia (l’edificio più bello, rosa confetto, con la bandiera a strisce orizzontali che languidamente ondeggia in armonia con il  vento) e poi ancora Afghanistan e l’Ufficio consolare Russo. La recente pista ciclabile scorre silenziosa al cospetto degli augusti platani.

Finalmente Villa Torlonia con le sue alte mura bianche, di fronte, Villa Paganini, che pare una piccola collina scoscesa, giardino preferito da cani e padroni (ebbi modo di constare il via vai incessante di persone accompagnate dai loro fedeli amici dirigersi verso il parco antistante la villa).

Al suo epilogo, la Batteria Nomentana viene inghiottita bruscamente da un sottopassaggio, che conduce a via Castro Pretorio oppure a Piazzale Flaminio

(passando prima per il Muro Torto che costeggia Villa Borghese).

Al di sopra della scura galleria svetta il Monumento al Bersagliere, tutto proteso verso la Breccia di Porta Pia – da bambino, rimasi estasiato la prima volta che vidi il coraggioso soldato, lo immaginai il giorno in cui fu aperto il varco nelle mura Aureliane, in mezzo allo scoppio dei cannoni e al crepitare dei proiettili, portatore di libertà.

Arrivai in Via Nazionale passando per Piazza della Repubblica, mi fermai poco lontano dal negozio in cui lavorava, sul lato opposto, all’ombra di un chiosco di giornali.

Aspettai l’orario di chiusura, con il decadente muoversi del sole verso ovest, assistetti al cambiare dei colori della città in silenzio, contemplando: il giallo accesso del primo pomeriggio sfumò in un arancione caldo, i palazzi si tinsero di un azzurro scuro; all’orizzonte si intravedeva l’Altare della Patria che splendeva nel crepuscolo.

Riconobbi il viso di Raissa: di una floridità sensuale, piccolo, gote e zigomi morbidi, occhi allungati, orientaleggianti come non se ne vedono molti da queste parti, le labbra come sul punto di pronunciare qualche parola e, dietro, un sorriso dolce, il tutto ornato da lunghi capelli neri; la memoria aveva serbato la sua immagine gelosamente.

Mi apprestai a raggiungerla, il cuore prese a battere all’impazzata come se volesse uscire bruscamente dal mio petto; mi venne un nodo alla gola, tale che ebbi paura di non riuscire a parlare; mossi i primi passi verso di lei e tutt’a un tratto mi sentii come se librassi il mio corpo sul suolo tanto che mi sentivo leggero; mi girava la testa.

Stavo per farle un cenno con la mano, per gridare il suo nome, quando la vidi abbracciare un ragazzo che improvvisamente era apparso accanto all’entrata del negozio.

Lo salutò con un bacio; le corde vocali mi si paralizzarono e il suo nome rimase taciuto, strozzato nella mia gola.

Immobile sul ciglio della strada stetti a guardarla per qualche istante, si voltò, come se avesse sentito fisicamente il mio sguardo toccarla; mi riconobbe ma non fece nulla, un accenno di tristezza e languidamente girò lo sguardo, si allontanò insieme al ragazzo.

Mi arresi al mio vagabondo inseguimento dell’amore, al suo essere perpetue.

Non la vidi più.