Racconto di Anna De Stefano

(Terza pubblicazione – 5 febbraio 2021)

 

 

Settembre caldo, forse fin troppo per settembre.

Allora perché aveva così freddo? In fondo un po’ di mal di gola, un po’ di tosse che saranno mai.

Mesa aveva deciso di farselo dire da un medico che non era niente di straordinario.

E invece l’allarme scattò come un fulmine a cielo aperto, la corsa in ospedale, la notte in ospedale con medici e infermieri sconvolti.

Mesa cominciava ad avere paura oltre ad avere la sensazione di annegare, il dolore intenso tra le scapole, e il dolore immenso di sentirsi sola. E poi arriva l’altra corsa, in un altro ospedale dove ogni dignità personale, ogni pudore, non può entrare.

Altri medici, altri infermieri sconvolti e Mesa pensava che non capivano dove era il suo problema.

Tamponamento cardiaco, versamento pericardico e pleurico, precipitazione della situazione renale.

Mesa pensava, non è questo il problema, come incredula dell’altrui sapere.

La terapia intensiva del nuovo ospedale le pareva appena familiare quand’ecco che arriva l’ordine di trasferimento ad un altro ospedale.

Durante il giorno avevano liberato i polmoni dal liquido che le impediva di respirare, doveva toccare al cuore.

Nella sala operatoria ben cinque chirurghi si alternarono per inserire l’ago vicino al cuore, ma nessuno dei cinque ci riuscì e arrendendosi, domandarono ad altri, altri medici, altri infermieri, altro ospedale.

Mesa pregò il personale dell’ambulanza, che doveva trasportarla, di avere riguardo per quel poco di dignità che le restava.

Li pregò di coprirla con l’unico indumento personale che le era rimasto, un pullover largo sotto le coperte e null’altro. I pochi oggetti personali raccolti in una federa e via.

Mesa non aveva paura, non ancora.

Corse in ambulanza e nuova accettazione, nuovi medici, nuovi infermieri, nuovo ospedale.

L’accettazione nella stanza delle scope avrebbe dovuto darle indicazioni precise, ma Mesa non voleva sapere. Non voleva sentire il medico che urlava contro chi l’aveva trasportata in quelle condizioni senza il defibrillatore. Mesa pensava che non fosse necessario.

Alla prima accettazione seguì la discesa all’Inferno.

Mai avrebbe pensato di vedere dal vivo scene soltanto disegnate nelle illustrazioni un po’ gotiche e drammatiche della Divina Commedia.

Una stanza enorme con decine e decine di barelle con corpi, alcuni nudi, altri appena coperti.

Uno di fianco all’altro, medici a cavalcioni su quei corpi per rianimarli.

Corpi legati perché in preda ad attacchi psicotici.

Corpi privi di freni naturali, immersi nelle loro deiezioni. E le urla, urla di dolore, di disperazione, urla tra i tentativi di comunicazione degli infermieri, quasi indifferenti a quello spettacolo, ma forse era l’abitudine per loro.

Mesa era stata appoggiata con la barella di fianco a due lavandini e un bidone della spazzatura, per buttarla, medici e infermieri dovevano lanciarla oltre il suo corpo.

La sua barella era indirizzata con i piedi verso la porta scorrevole.  Mesa aveva paura adesso, aveva terrore. Nel guardare quella porta che si apriva e chiudeva di continuo, Mesa cercava con parole mute di farsi portar via.

Lo gridava al marito che era fuori e che continuava a gridarle che non poteva entrare e non doveva farsi prendere dal panico.

Mesa piangeva in silenzio ed aveva paura, la porta continuava ad aprirsi e chiudersi per ore, ed ore.

Per brevi e preziosi momenti suo figlio superando ogni difficoltà era entrato, le aveva preso la mano e le aveva portato via la paura.

Momenti preziosi che la lasciarono raggiungere il medico che avrebbe tolto via quel liquido dal cuore.

Rimaneva il freddo di chi aveva capito esattamente da dove venisse quel dolore. Ora I medici e gli infermieri non sembravano più sconvolti.

Le accarezzavano I capelli e con una tenerezza inaspettata le asciugavano le lacrime.

I suoi occhi e la sua testa e il suo cuore non potranno mai dimenticare.