Racconto di Giovanni Bonnici

(Prima pubblicazione)

 

L’ineffabile eleganza di un filo di fumo si manifesta lentamente davanti ai miei occhi e mi ricorda l’ennesimo errore, che gli altri sono andata dimenticando diluendoli col tempo: fumare. Sono in gravidanza, lo so che non devo, fa male a me e al piccolo uomo che sto per mettere in giro sulle strade della vita. Pazienza, forse me ne farà una colpa, chissà se l’ultima in ordine cronologico, forse una delle tante. Il rotolare su sé stesso del fumo mi ricorda, almeno in qualche lontana modalità, il mio andare senza una vera meta, una specie di moto perpetuo in cerca di un traguardo forse inesistente. Il fumo non mi piace davvero, così come non mi piaccio io; però mette il mio spirito in una certa modalità di pace, un surrogato della serenità, e mi fa sentire bene, se di bene si può parlare. Mi dà l’idea di una parentesi tonda messa intorno al vivere, una sospensione temporanea al fluire, a volte vorticoso, del tempo.

Sento i suoi gesti dentro di me e la cosa non mi mette affatto di buon umore. Forse non sono adatta a diventare madre. Eppure l’ho cercata con convinzione questa gravidanza. L’ho voluta come si vuole a volte l’ignoto, una specie di horror vacui, di attrazione per qualcosa che non si conosce, forse, una follia. Una cosa, una sola, credo, mi ha spinto davvero su questa strada: il desiderio di essere chiamata “mamma”. Volevo un rimborso da parte della vita, il premio per aver superato tutti i suoi ostacoli ed essere arrivata sana e salva a questo momento.

Una parola che è poco più di una lallazione. Due sillabe che ogni infante riesce a ripetere, quasi a simulare un ritmo a due tempi che gli risuona nella testa. Mam-ma.

In tutte le lingue è quasi sempre uguale. Due sillabe che nascondono il segreto della perpetuazione della specie degli uomini. Di poche cose sono sicura e una di queste è che questo bambino ne avrà una sola, diversamente da me, che non ne ho avuta nemmeno una e al contempo troppe tanto che ne ho perso il conto.

Una, la quale mi ha generato e nient’altro, mi ha lasciato lì, come fossi una cosa da posare e mi ha posato, davvero; le altre, invece, mi hanno coltivato, mi hanno consegnato alle storie della vita, mi hanno accompagnata, per mano, fino alla madre che sto per essere.

Il mio pensiero si sforza di andare indietro nel tempo a quando anche io avrei dovuto averne avuta una. Per quanto possa provare non riesco a ricordare. In effetti non ricordo nemmeno il giorno quando vennero a prendermi quelli dei servizi sociali. Ho, di quel tempo, dei ricordi, ma solo nel naso, la mia amata memoria di riserva. Ricordo bene l’odore della stoffa del vestito della signora che mi prese in braccio, sensazione nuova per me, non il suo viso o la sua voce, solo l’odore. Era un odore nuovo, mai sentito, che sapeva di novità. Poi, quello dell’abito delle suore, le mie mamme della prima ora; quello resta per me l’odore più familiare, io lo chiamo “odore di casa”, dell’unico luogo che per me è ancora la casa della mia memoria.

Iniziano lì i miei primi ricordi di bambina. Prima il nulla, come se venissi fuori da una nuvola, un niente confuso. Ricordo pure che iniziai a mangiare; scoprii sapori e sensazioni che iniziarono a farsi con forza strada nella mia testa. L’odore della pasta cotta, l’odore del bagnoschiuma, della pelle sudata; una miriade di sensazioni che si sommavano testardamente dentro di me. E poi iniziai a parlare. Prima nulla, non ricordo parole e le parole non mi danno ricordi prima di allora. Le prime frasi le dissi a cinque anni, per questo le ho fissate; ero abbastanza grande da comprendere il prima, fatto di silenzi, e il dopo, in cui i miei suoni cercavano un senso in mezzo al frastuono delle persone e delle cose.

Tutti avevano da dire, le suore, soprattutto, si agitavano e mi inondavano di nuovi e sconosciuti oggetti che scoprii essere le parole. E la parola mamma iniziò ad avere un senso compiuto.

Non era più un gioco delle labbra, diventò carne, si fece immagine e non solo idea.

Mi ospitavano delle famiglie nei fine settimana allora ed ero una bambina graziosa con i riccioli biondi. Ricambiavo le attenzioni con una certa stoltezza, frutto di una confusione cui solo oggi riesco a dare un senso. Ero il primo termine di un paradosso logico; ero figlia contemporaneamente di tutte le madri di famiglia dove andavo a trascorrere un po’ della mia vita. Tutte loro le chiamavo “mamma”, non ugualmente i fratelli e sorelle decidui sui quali inciampavo, loro mi erano utili ma non necessari. Mi sembrava tutto semplice e normale, però di una contraddittoria normalità.

Loro, le mamme, erano lì, dritte, nella loro perpendicolare certezza di esserci, almeno credevo allora, e io stavo dinanzi a loro come un frutto inespresso di qualche albero lontano, e sentivo forte il disagio dell’evidente asimmetria del rapporto. Allora, nella semplicità del momento, loro erano, per me, semplicemente la mamma.

C’erano pure i papà, in verità, ma la cosa mi lasciava del tutto impassibile. Erano il prezzo che mi appariva giusto da pagare per avere una madre, un biglietto necessario per ottenere la gioia di un fine settimana da vivere fuori dalla routine dell’istituto. Era la mamma il centro della mia attenzione, loro uno scarabocchio distratto sul foglio colorato delle mie speranze.

Mamma Giusy, mamma Loredana, mamma Suora…si accavallano nomi e case, volti e voci in un susseguirsi di tempi e relazioni, un vortice continuo di emozioni. Ho vissuto sempre di sbieco e in punta di piedi, in tante famiglie diverse e, in tutte, la padrona di casa era per me, automaticamente, la mamma.

Forse, quasi certamente, per loro era un’esperienza bizzarra quella di essere chiamate madre da un frutto nato e cresciuto lontano dal loro giardino. Mi faceva sorridere quella smorfia di malcelato imbarazzo che si andava affacciando sulle loro guance al primo chiamarle: mamma. Poi ci si abituava tutte, io e loro, e diventava una cosa normale. Mamma Laura, mamma Donatella, mamma guardachesofaremamma… era passato dall’essere gioco infantile ad anello di una catena.

Io non lo sapevo ma mi stavo legando, stavo costruendo ponti, ero diventata il centro del crocevia. Del paradosso di prima io ero un termine e loro l’altro: se erano tutte mie mamme tra di loro era nata, a causa mia, una sorta di parentela sublimata dall’essere vera, reale, qualcosa che non esiste nei libri di diritto ma che adesso potrei aggiungere, mettendo me stessa come nota animata a piè di pagina.

Adesso mi avvio io stessa a diventare mamma. Questa notte in ospedale, prima di partorire, ho il tempo di ripensare, di ricostruire il mio andare. Mancano alcune tappe, le prime, le altre le ho presenti vivide e forti.

Mamma Federica, mamma Lucia, mamma mettiminbracciomamma, vi sento tutte dalla mia parte, ne ho sempre avuto la granitica certezza. Metterò un punto, la parola fine a questo scorrere continuo di nomi e di parole. Sarò io la mamma, la fonte primaria, l’origine certa della vita di questo mio figlio.

Poi potrà succedere di tutto, non si sanno le cose della vita, a stento conosciamo, per esperienza, qualche vago accenno del presente, tutto il resto, o è memoria o è speranza. Un punto fermo, una bandiera conficcata, con amara certezza, nella terra, una stele di pietra, pesante abbastanza da non poter essere spostata, questo sarò io per questo figlio. Poi, spero, pure altro. Trampolino di lancio, coperta e materasso, libro degli esempi e tutore delle regole; queste cose le spero, per me e per lui.

Del padre non so. È di certo un essere importante nella mia vita, ma non fondamentale; ora che ci penso, di fondamentale per me non c’è di fatto nessuno. Mi sono abituata, nel tempo, a dare un peso infimo alle cose e alle persone, conta solo esserci, conta solo vivere, né per qualcuno né per qualcosa, solo vivere, il gioco di spingere in avanti i giorni.

Ho imparato a dare peso relativo a tutte le cose, dalle parole in poi, ma mi manca il senso dell’indispensabile. Forse quest’ultima sigaretta mi dice che dovrei dare maggiore importanza a qualche cosa e ad alcune persone. Eppure non riesco a discernere il mio dal tuo, il forse dall’abbastanza. È di certo figlia della mia storia questa mia incerta capacità di stare ferma.

Da piccola, invece, mi fermavo a pensare e a pesare le parole. Mi sedevo, al centro di un discorso, di una frase, e stavo lì, quasi a guardarmi da fuori. Cercavo di capire meglio. Il risultato, almeno dall’esterno, era quello di restare zitta al centro di una frase o di una domanda. Il silenzio esteriore era la manifestazione di un dibattito feroce dentro di me, un frastuono di emozioni e di idee che restavano altrimenti inespresse. A volte anche solo una certa inclinazione della luce mi sorprendeva al punto di rimanere immobile a guardare, l’evidente vantaggio di aver cominciato tardi a capire, cose e persone, ad ascoltare suoni, a decifrare odori.

Adesso il colore del mattino inizia ad affacciarsi dalle tende della mia stanza, col suo morbido strisciare senza far rumore. C’è mia madre, l’ultima in ordine cronologico, la prima nei miei pensieri, quella che ha maggiormente speso sé stessa nel mio andare in direzione ostinata, che dorme accanto al mio letto. È lei che chiamo mamma con il senso convinto della mente e non solo con le labbra. Di lei ho preso il nome di famiglia e il lessico di casa, i gesti e i gusti; è a lei che penso quando esclamo “mamma mia!”. È lei il pensiero del mattino e quello della sera, del padre conservo i ritagli.

È di lei che voglio conservare tutti gli odori, senza cancellare quelli di chi l’ha preceduta, sommando le sue ciglia ai miei sguardi, le sue parole ai miei pensieri. È suo il mio senso delle cose ed è principalmente suo questo nipote che viene alla luce. Avrà tante mamme della mamma a volerlo bene, ma una sola nonna, parola che evoca la saggezza del conoscere e l’esperienza del vivere che si fa storia di famiglia.

Adesso, che si è consumata quest’ultima sigaretta, chiudo gli occhi nella speranza di immergermi, ancora una volta, negli odori che solo al buio sanno aprire le porte della mia memoria. E il mio andare avrà la forza necessaria per me e per lui.

Benvenuto amore di mamma.