Racconto di Samantha Mammarella

(Prima pubblicazione)

 

 

Il pomeriggio, quando finisce la terapia, Mattia torna a casa in venti passi. È una via sicura quella che percorre. Sua madre gli ha detto che può attraversarla da solo, che le auto di lì non passano.

Il bambino stringe al petto un libro di filastrocche, un mucchio di parole in braccio da allacciare l’una all’altra. Quando pensa a qualcosa da raccontare, si immagina una parete alta da scalare. Le parole gli rimbalzano male sulla lingua, finisce per balbettare. Tutte le volte che comincia un discorso deve capire dove infilare i piedi, in che punto agganciare le mani per non scivolare.

Lino è il suo logopedista. Vive in un fabbricato basso, incastrato tra il distributore di benzina e il negozietto di alimentari: nessuno meglio di lui conosce i giochi per bambini e i trucchetti per non tartagliare. Da quando Lino è in pensione, la mattina se ne va a passeggio per il parco, con l’andatura elegante e un fazzoletto in tasca pieno di nodi. Gli bastano dieci minuti per avvertire la scossa.

Mattia, a fare terapia, ci va volentieri. Gli piace l’idea che qualcuno gli parli con un tono di voce calmo e rilassato, sapere che esiste un posto in cui nessuno lo prenderà in giro se ha bisogno di più tempo per esprimersi.

“Quello chi è?”, Mattia indica la foto racchiusa in una cornice d’argento.

“Si chiama Leo. È mio figlio”, con la mano Lino si rifà la riga in testa, prova a mettere in ordine capelli e pensieri.

“E do…do…dove vive?”

“A Milano, fa il veterinario.”

“Bello!”

“Sì, sì. Adesso però concentrati.”

Nessuno conosce il rituale che Lino mette in atto quando certe idee gli invadono la testa. Ogni volta che la scossa elettrica gli arriva fino all’inguine, annoda un fazzoletto di stoffa. Lo tiene nella tasca destra, sul lato opposto a quello del cuore. A volte crea pochi nodi, a volte non c’è più tessuto per aggiungerne altri. Di ritorno dal parco, va in bagno e conta le annodature. Apre il rubinetto e riempie la bacinella, ci butta dentro i suoi vestiti. Si sfila le mutande e le guarda galleggiare, intrise d’acqua e detersivo. Resta in piedi, nudo accanto al lavandino, a contare le bolle trasparenti che si formano in superficie. Quando i pensieri si fanno insopportabili, aggiunge nel catino una polvere disinfettante. Se la passa anche sulle mani e strofina forte, fino a che i polpastrelli non gli fanno male.

Ogni volta che Mattia suona il citofono, il sudore gli invade la fronte. Poi riprende il controllo di sé e va ad aprire, sa che dovrà limitarsi a spiegargli che le parole vanno allungate per non balbettare.

Mattia lo ascolta con attenzione, gli occhiali tondi e la maglietta di Superman che gli tira sulla pancia.

Non capisce perché Lino certe volte lo fissi senza parlare. Quando lo vede contrarre la mascella, pensa di non essere abbastanza bravo. Allora si sforza di non balbettare ma è peggio, la lingua finisce per incepparsi.

Quando arriverà il tempo in cui parlare non lo farà sentire sbagliato? Poi respira a fondo, la guancia poggiata sul palmo della mano. E ricomincia.

 

Oggi è di nuovo quel giorno. Il vento soffia attraverso la stanza, strapazza il fondo della tenda. La stoffa va prima in avanti e poi indietro, come chi si è perso e non sa che direzione prendere.

Mattia citofona, aspetta il clic della serratura prima di spingere in avanti il portone.

Lino è seduto alla scrivania ma non si muove, il viso appuntito e le labbra incartapecorite. Il trillo si ripete, gli penetra nelle orecchie mentre sente il cotone delle mutande tendersi e farsi appiccicoso. Sono passati trent’anni dalla prima volta in cui non seppe trattenersi. Fra poco sarà il turno di Mattia, delle sue gambette bianche e sottili. Lino non può più aspettare, se lo sente nel sangue. Gli inchioderà la vita in un punto, di nuovo artefice di una ricorrenza in cui non c’è nulla da brindare.

S’immagina la scena, in fretta come in un film accelerato. Poi accartoccia la pagina della Gazzetta dello Sport. Ficca le dita nella carta rosa, frigge dall’impazienza. La bocca gli si riempie di saliva come quando ha fame e non vede l’ora di affondare i denti in una bistecca al sangue.

Nessuno può salvare Mattia, nessuno. Neppure Leo s’è salvato: da quando ha rimesso insieme tutti i pezzi non è più tornato a casa.

Ora Lino guarda la bottiglia di plastica. Dentro c’è un liquido rosato che puzza di disinfettante, quello che vicino alla fornacella sua moglie urlava che non ci doveva stare. Se ne versa un po’ sul braccio. Poi va nello studio del figlio, le fiale di barbiturici sono ancora chiuse nell’armadietto, insieme alle siringhe. Si stende a terra, in mezzo alle cose di Leo, ripensa a un gioco che facevano insieme.

Dire, fare, baciare, lettera, testamento.

Ha la bocca amara Lino, il laccio emostatico annodato sul braccio, l’ultimo nodo prima che la bestia che vive dentro di lui si addormenti per sempre.

Mattia è ancora sotto al portone, ha una bolla di zanzara sulla fronte e dei calzoncini di spugna azzurra. Sbuffa, s’attacca un’ultima volta al citofono. Questa volta nessuno gli aprirà. Ancora venti passi e sarà a casa.