Racconto di Maurizio Boschiero

(prima pubblicazione – 23 settembre 2020)

 

 

Mio padre, “poro can”, dopo cena si “imagava” tra il sonno e il “caldin” della cucina e poco mancava che si addormentasse sulla sedia. Aveva sempre un po’ “de afanin”, che lo disturbava a causa di un’ulcera antica e per questo mia madre cercava di fargli minestrine leggere e pasta con poco “consiero”. Cenavamo presto, poi presto andavamo a letto, quasi come le galline. Cambiò qualcosa quando io cominciai a frequentare le superiori all’ITIS De Pretto di Schio, la scuola tecnica per periti industriali. Era il ‘68, anno di rivolte studentesche, scioperi, ribellioni giovanili, musica, politica e liberazione sessuale. “Ségnete, prima de nar fora dala porta e disi tre Ave Maria ala Madona quando che te passi davanti al capitelo”, mi raccomandava mia madre ogni volta che uscivo per andare a scuola. Se passavo dal capitello senza recitare le preghiere, mi pareva che la Madonna mi guardasse storto, e chissà che inferno si immaginava, la mia guardinga e severa genitrice, a Schio, anche se le raccontavo il meno che potevo. Due volte la settimana tornavo a casa la sera, perché il martedì e giovedì avevamo il rientro pomeridiano ed arrivavo verso le 19 con la corriera. In quei giorni i miei mi aspettavano per cenare tutti insieme. Mia madre, mio padre e le mie due sorelle erano già a tavola quando io gettavo a terra, malamente, il fascio di libri che mi ero portato a scuola. Arrivavo stanco ed affamato senza tanta voglia di parlare, come era stanco mio padre per i turni duri che faceva alla Lanerossi di Piovene, stabilimento numero uno, reparto lavaggio. “Come xèla nà un cò?”  Chiedeva curiosa mia madre; rispondevo malvolentieri mugugnando: “Ben, la xè na ben” e basta. Poi ognuno si piegava sul piatto per far presto a finire. La televisione l’avevamo da poco tempo e troneggiava sul piano alto di un carrello dai ripiani di vetro. Il piano inferiore era occupato dal pesante trasformatore che alimentava l’apparecchio ed io accanto vi avevo sistemato un giradischi a valigetta marca “Lesa” color verde e bianco, che mi avevano comprato dopo mesi di sfinimento. Dopo cena mio padre guadagnava rapidamente il letto, mia madre sparecchiava la tavola e “broàva su”, io e le mie sorelle se non avevamo compiti da finire accendevamo un po’ la televisione e vi rimanevamo incollati al massimo fino a “Carosello”. “S’incantesimava” anche mia madre su per la televisione quando appariva sullo schermo Padre Mariano, un frate che in quegli anni predicava dagli studi di Roma. Poco mancava che non ci obbligasse a seguire la predica in ginocchio. “Che santo omo” ripeteva in continuazione, “ségnete àseno e porteghe rispeto, no supiàre parchè el finisa presto, vilàn d’un vilàn”. Era questa la predica nella predica. La stanza era piccola 4×4 piena di muffa sui muri e per noi funzionava da salotto, cucina, sala da pranzo, da studio e da lavoro. La stufa bianca smaltata, a legna, scaldava l’ambiente e il forno riempito di “pumi”; li trasformava lentamente in profumati dessert caramellosi. Tante volte mi trovavo a contendere il tavolo della cucina a mia madre o alle mie sorelle. Io facevo i compiti e mia madre stirava o lavorava alla macchina da cucire. Il tremolio indotto dai suoi “mestieri”, disturbava il mio lavoro, e non di rado l’uno o l’altra doveva rinunciare all’impegno. Oltre a questo, capitava che quando stavo disegnando, magari da ore, su un foglio bianco rigato di segni tecnici definiti e precisi, la stufa che veniva caricata dall’alto, spostando i “serci”, sbuffava una nuvola, che faceva ricadere una nevicata di “falive” nere per la mia disperazione. Dovevo ripulire tutto con la gommapane e salvare il salvabile. D’estate andava un po’ meglio, le giornate erano più lunghe, le finestre erano aperte, ma soprattutto la stufa assassina restava spenta. Schio per me era diventato il posto delle scoperte, mi si schiudevano orizzonti, interessi ed occasioni che tra le quattro mura ammuffite di casa non avevo mai nemmeno immaginato. Mi incuriosivano i negozi, soprattutto, di libri e di dischi, le vetrine eleganti e lusinghiere con mercanzie elegantemente disposte, “m’impappinavo” davanti alle più semplici novità. Come un “semòto”, mi imbarazzavo se vedevo due ragazzi abbracciati per strada. Era arrivata quella ventata di rinnovamento che caratterizzava quegli anni. Cominciai a fare delle amicizie con ragazzi, che frequentavano la scuola e, lentamente, il mio mondo con i suoi confini rigidi e angusti si apriva a nuovi interessi, nuovi discorsi, nuovi propositi. Fu proprio così e in questo ambito conobbi le canzoni di Fabrizio De André il grande cantautore genovese che in quegli anni incideva le sue prime canzoni in LP e 45 giri. Qualche raro passaggio televisivo lo rese abbastanza noto ad un pubblico di nicchia che ne apprezzava l’impegno poetico e sociale. I testi delle sue canzoni erano poesie in musica che toccavano i temi del disagio, dei vinti, della società piccola e dolente, degli emarginati. In un tempo in cui le canzoni erano ancora legate al sentimentalismo più sdolcinato e sciocco, i suoi temi mi presero proprio tanto. Con sacrificio e risparmio mi comprai il 33 giri che era uscito nel ’67 col titolo: Volume primo. Entrai nel negozio dei “dischi Pietrobelli” sotto i portici vicino al Duomo di San Piero e tutto emozionato richiesi il disco. Un padellone di vinile con una bella copertina, costo 3500 lire. Canzoni pregevoli all’interno, alcune le conoscevo, altre no perché la televisione censurava pesantemente testi e termini che fossero anche appena trasgressivi. Censurarono perfino “Dio è morto” dei Nomadi, il cui testo era un po’ la sintesi del tempo e di quegli anni, che ironia della sorte, la radio vaticana regolarmente trasmetteva. Dunque e finalmente avevo tra le mani il disco del mio idolo e non vedevo l’ora di tornare a casa per sentirlo e orgogliosamente farlo sentire. Mio padre strimpellava un po’ la chitarra ma le canzoni che cantava erano vecchie come il cucco, una sui corridori parlava di un giro d’Italia con Guerra, Binda, Olmo e qualche altro reperto chiuso ormai negli annali del ciclismo. A volte accennava al “Tango delle capinere”, qualche altra a “Chitarra romana”, era tutto il suo repertorio, un Claudio Villa da sacrestia che a me non piaceva per niente. Mia madre non cantava nemmeno in chiesa o era stonata da brividi, ma credo fosse troppo timida anche per le litanie sacre. Quella sera non avevo il solito muso lungo per la stanchezza, mi emozionava il pensiero di ascoltare quel disco. De André, sul mio giradischi, roba da intenditori, da intellettuali, a casa mia. Gettai il pesante fascio di libri nell’angolo solito, con fretta entrai in cucina, salutai appena e prima di sedermi sistemai sul piatto del giradischi il 33 giri. Mia madre sorpresa disse subito: “ecolo che’l taca el graòn; sempre na novità da quando che te ve a scola a Schio, se savea tanto… no te gavaria mandà de sicuro”. Mio padre mangiava di malavoglia per via “dell’afanin” ed era un po’ “insonacià”, poco ascoltava del disco, mie sorelle troppo piccole erano ancora meno prese, mia madre stranamente ascoltava. Belle canzoni le prime, parevano una novena di preghiere anche nei titoli: Preghiera in gennaio, Marcia Nunziale, Spiritual, Si chiamava Gesù ecc… “Vuto vedare che el ne va prete sto chi, sinti che cansòn, le me par de ciesa”, sbottò con sarcasmo mia madre verso mio padre, che ormai pencolava con la testa tra le mani. Io mi sarei aspettato un commento un po’ più benevolo, ma conoscendo la donna avevo poco da sperare. Ad un certo punto quando ormai era scontato che nessuno ascoltava le parole di quel “graonamento” attaccò Via del campo. Dopo una strofa normale, la sfiga volle che in un attimo in cui tutti erano silenziosi attaccò: “Via del campo c’è una puttana, occhi larghi…”  Non fu nemmeno finita che purtroppo questa volta le parole vennero ben comprese da mia madre soprattutto quella “parola”. “Maria santissima de tutte le grazie altro che prete, mai sentio na roba cusì” urlò mia madre che “de botto” non casca dalla “carega”. Aveva una faccia e degli occhi che sembrava la Madonna della neve tanto era terrea. Altro che “gneo gneo, sto imbesile el xè un demonio, a te meto ai discoli mi”. Signore “jutème”, continuava la solfa di mia madre. “E jùteme anca ti a dirghe su, te me pari intardetto”, si rivolgeva a mio padre. A lui, gli era venuto “afano dal tutto”, più per lo starnazzamento della consorte che per la canzone. Anche il gatto aveva il pelo drizzato che pareva “desborassà”. “Bisogna ca fassa benedire la casa da novo col demonio ca go qua, ansi te fasso benedire anca ti, doman a vao da l’ansiprete”. La cagnara fu interrotta da un provvidenziale “rutto” della stufa che per una volta mi fu amica. Eruttò nella stanza una nuvola di fumo nero e cenere, che confusero la scena, perché forse era stata “incalcata” troppo. Colsi al volo il momento per togliere il disco e defilarmi in fretta.  Parole, fumo e confusione, regnavano ora nella stanza, ma io ero ormai da un’altra parte. Mi tenne il muso per qualche giorno, come “ingrotà”, infine non ne parlò più, ma parlavano i suoi occhi sempre con un che di sconsolato, come a dire: “Sto qua el me va anca a done go paura, a Schio dovea mandarlo, no ghe mancava altro.”. Io continuai per la mia strada, con la scuola e con Schio che amavo sempre di più. Acquistai, poco dopo, un’altra mina che se fossi stato scoperto sì che mi mettevo nei guai di nuovo e più grossi: era “Je t’aime moi non plus”, di Serge Gaisburg e Jane Birkin. Cantavano, anzi sospiravano un rapporto d’amore molto censurato, ma che fu un successo enorme; forse la bandiera di quella liberazione sessuale che era in atto. Lo ascoltavo di nascosto o, se eravamo tra amici, mettevamo un “palo” di sentinella per evitare sorprese. Era come ascoltare “radio Londra” nella seconda guerra mondiale, ma anche una sfida e un prendersi gioco di quel perbenismo ipocrita e greve di quegli anni.