Racconto di Severino Mistò

(Seconda pubblicazione – 27 maggio 2021)

 

 

I miei nipoti, che vivono a Londra e a Bologna, hanno scoperto che a Como, nella città del nonno, abitava l’inventore dell’energia elettrica.
Mi chiesero di raccontare come avvenne il caso e allora incominciai così:
“Once Upon a time … ”
“C’era una volta … ”
“Un Re!”, direte voi.
No, quella è la bellissima favola di un pezzo di legno a cui crebbe il naso lungo a furia di raccontare bugie: un famosissimo burattino di nome Pinocchio.
Invece quella che vi racconterò è una storia vera, non di un Re, bensì di un conte e dovrebbe incominciare così : “C’era una volta un Volta”. Il conte, infatti, di cognome era Volta, Lisander per gli amici. Sì, quello che ha inventato la pila. Lo sanno anche i Comaschi perché in piazza a Camerlata c’è un monumento pieno di anelli e sfere che la rappresentano e in centro città c’è una bella piazza che lo onora col suo nome.
Adesso i Comaschi lo sanno anche più diffusamente perché Daniel Libeskind, l’architetto del World Trade Center di New York ex “Torri gemelle” e anche del Museo Ebraico di Berlino, “tanto per capirci!”, ha progettato il monumento alla luce che si trova all’apice della diga foranea, in mezzo al porto della città.
Che poi, in riva al lago, sorga anche il Tempio Voltiano, importa solo ai Giapponesi che vanno a vederlo, credendo di trovarci una tecnologia di tipo nipponico e invece ci trovano assai poco della pila, ma una quantità di strumenti di vetro con cui il conte studiava i gas.
Lui era soprattutto un curioso. Andava all’oasi del Bassone e vedeva che sull’acqua degli stagni comparivano delle bolle d’aria che raccoglieva con delle campane di vetro che poi faceva esplodere con una “pistola a gas” di sua invenzione. Noi moderni sappiamo bene che in realtà si trattava di metano che si formava dalla decomposizione dei vegetali putrefatti sott’acqua.
Di poterlo utilizzare per illuminare le case, non ci pensava nemmeno.

Dalle decomposizione alla disintegrazione.
Forse Volta era più interessato a inventare un’arma da guerra di cui, a quel tempo, con in giro Napoleone, si sentiva la mancanza.
Però aveva conosciuto Galvani, quello della rana e di rane, ce n’erano all’oasi del Bassone.
Insomma, alla fine inventò la pila elettrica.
In suo onore, gli uomini di scienza decisero che il Volt sarebbe stato una delle unità di misura dell’energia elettrica.
Un tempo, quello che sembrava uno strano concetto della Fisica, veniva assimilato, si dovrebbe dire “assaggiato” dai ragazzini grazie a un esperimento singolare.
Appoggiavano la lingua sulle due lamelle che caratterizzano la “pila” di 4,5 Volt.
Poi rifacevano l’esperimento con una piletta da 9 Volt, che un tempo era regina incontrastata delle radio a transistor. I 9 volt sulla lingua pizzicavano niente male!
Sapevano bene che c’era la morte quasi assicurata se si toccava un conduttore elettrico con 220 Volt e qui poco importa se fino agli anni ‘50 in certe case entrava la corrente 110 Volt e in altre quella 160 Volt per cui gli elettrodomestici nascevano con il cambiatensione.
Tutti gli altri personaggi che vennero dopo -Herz, Watt, Ampere- non avrebbero avuto mai accesso alla notorietà se per primo non ci fosse stato lui con i suoi studi di indagatore acuto e curioso, che ha funzionato da apripista!
Adesso i Comaschi lo sanno anche perché, dopo un paio di secoli, sono stati messi i cartelli stradali marroni con sopra la scritta “Como, città di Alessandro Volta” e allora gli viene in mente che se non accendono più in casa la candela per avere un po’ di luce quando fa buio, ma semplicemente premono un bottone, è tutto merito suo!
Alla fine Volta fece vedere la pila a Napoleone, ma la cosa si fermò lì.
Fu come quando Marconi fece vedere la sua radio al Duce, ma la cosa si fermò lì, anche quella volta. Poi qualcun altro modificò quell’invenzione e la sviluppò fino a creare il radar e così fu che la flotta americana, con solo tre portaerei malandate, sconfisse i Giapponesi nel Pacifico, perché gli Americani vedevano le navi dei “musi gialli” (nostri alleati: piccolo dettaglio per chi voglia ricordarsene), ma loro no! E forse, è il minore dei mali. Sarebbe potuto andare peggio.

Adesso andiamo un po’ più in fretta.
Nessuno lo aveva mai visto. Sto parlando dell’elettrone.
Ci si arrivò col calcolo matematico, poi confortato dalla chimica e con la fisica, a immaginare che l’atomo avesse una carica elettrica.
Erano gli anni ruggenti nei quali la scienza partiva dalla intuizione, passava per la sperimentazione e arrivava alla tecnologia moderna fino a Piero Angela che con la sua trasmissione “Quark” ci spiegò come vanno le cose, meglio che all’Università.
Dopo, l’invenzione della fissione atomica, accadde anche che il maestro Manzi insegnò la lingua nazionale a un popolo che, anche per merito suo, scoprì di essere italiano alla televisione.

Però, in mezzo al percorso per arrivarci, ci fu qualcos’altro.
Un certo signor Einstein incominciò a pensare che le concezioni meccaniche, prevalenti nella fisica dell’800, fossero limitative. Ormai la fisica subatomica si era evoluta e lui uscì fuori “di senno”
“così pensava la concorrenza degli scienziati suoi coevi” con la teoria della relatività, prima speciale e poi generale e con la meccanica dei quanti.
Usava un regolo per misurare lo spazio e un orologio per misurare il tempo.
Soprattutto il concetto di tempo, “concepito come passato presente e futuro” e lo spazio, subiscono uno stravolgimento radicale.
Le grandezze della fisica -lunghezza, volume, massa, accelerazione, forza magnetica, carica elettrica- diventano “relative”, a seconda del sistema della loro misurazione.
Il mondo non è più tridimensionale, spaziale, ma, con la ricognizione del concetto di tempo, diventa quadrimensionale.
Lo spazio quadrimensionale, di cui il tempo fa parte, non è quello Euclideo, visibile, ma quello esprimibile solo con l’analisi matematica, come per l’atomo e le sue componenti, che uno scienziato danese, Niels Bohr, aveva concepito come un mini sistema solare di cui il Sole è il protone, carica positiva e i pianeti sono gli elettroni, carica negativa.
Più facile da capire.

Il Sole, appunto, si era creduto che emettesse energia sotto forma di luce, elettricità, raggi X ecc. con flusso continuo, come l’acqua che scorre.
Un fisico tedesco, tale Planck, morto quando chi scrive aveva un anno, così come Einstein, morto quando chi scrive ne aveva nove, (questo per dire che erano contemporanei), ritenne che l’emissione di tale energia fosse discontinua, rilasciata in una quantità (granuli) minima non scindibile che chiamò quantum di energia.
Anche Planck fu deriso dai suoi concorrenti, ma il solito Einstein, che era abituato ad essere deriso, gli credette e gli diede ragione spiegando l’effetto fotoelettrico che Herz aveva scoperto nel 1887.

Einstein stesso suppose che la luce è costituita da quantum di energia che chiamò fotoni, da foto.
L’effetto fotoelettrico si ha quando i fotoni colpiscono gli atomi del pannello fotovoltaico e ne espellono gli elettroni.
Un quantum disgrega un solo atomo e serve a emettere un solo elettrone.
Qui, per la prima volta in questo racconto, si parla di disgregazione dell’atomo, parente di disintegrazione, brutta parola che fa pensare alla bomba atomica.
Come continua a capitare, nella storia dell’uomo, la scienza aiuta l’umanità, ma in certi casi la danneggia, come Nobel, che inventò la dinamite e poi se ne pentì e per farsi perdonare… beh!, oggi qualcuno che fa del bene, viene premiato con i suoi soldi.
Anche i coniugi Curie usarono i raggi alfa, beta gamma, per scopi benefici, ma quei raggi “alfa” in particolare, furono poi usati per bombardare gli elementi.
Furono usati da un certo Rutherford che, a furia di bombardare, scoprì il protone.

Qui iniziò il dramma.
Si era in epoca nazifascista e tutti si preparavano a una guerra per vincere la quale serviva una arma segreta.
L’americano Orlando Lawrence inventò il ciclotrone che servì a lanciare i proiettili protonici a una velocità tale da rendere possibile la disgregazione del nucleo atomico.
Ancora più efficace si rivelò il bombardamento con i neutroni (scoperti dai coniugi Curie) e sperimentati da Enrico Fermi.
Lui, bomber nato, (terminologia gergale usata per taluni calciatori avvezzi al goal) bombardando l’uranio con neutroni, ebbe il sospetto che l’uranio stesso si trasformasse in altri elementi che mancavano nella tavola di Mendeleev.
Aveva indovinato. L’uranio, disgregandosi, originava il n. 93, nettunio e il n. 94, plutonio, elementi che mancavano nella scala.
Come vedete, si ritorna al concetto del sistema solare con i nomi dei pianeti più lontani.
Purtroppo fu anche scoperto che la rottura (fissione) dell’atomo di uranio dà luogo, oltre alla formazione di nuovi elementi, alla emissione di enormi quantità di energia.
Il bombardamento dell’atomo di uranio per mezzo dei neutroni genera altri neutroni che si trasformano in proiettili che bombardano altri nuclei : la famosa reazione a catena.
“Infine” si arrivò alla esplosione della bomba di Hiroshima e si dimostrò che la scienza può arrivare dappertutto, quindi dire “infine” è sbagliato.
La ricerca continua e i suoi sviluppi sono gelosamente custoditi dalle potenze atomiche.
E pensare che tutto era partito da Volta.
Meno male che, insieme con la bomba atomica, sui tetti delle case incominciano a comparire i pannelli fotovoltaici.
Come dimenticarci di lui?
Non sono sicuro, però spero che i nipotini “capiscano”.