Racconto di Alessandra Macagno

(Prima pubblicazione)

 

Comandante Palmer,

rivolgo a Voi le mie rimostranze, come atto di sfida all’autorità militare, poiché ritengo che la guerra venga deliberatamente prolungata, proprio da coloro che avrebbero il potere di porvi fine. In qualità di soldato, mi esprimo a nome di tutti i miei commilitoni. Credo che gli scopi di questo conflitto siano profondamente mutati. Ogni azione, volta alla difesa e alla liberazione, è divenuta un mero pretesto di aggressione e conquista. Non sono questi gli obiettiviper cui molti di noi hanno scelto di arruolarsi e combattere.

Poggiò la penna sullo scrittoio e, distolto lo sguardo dal foglio, scrutò ogni singolo elemento del suo studio: i tomi, dalle copertine opache, disposti lungo le mensole della libreria in noce, la poltrona in mogano, con la seduta in pelle, il tappeto persiano, raffigurante arabeschi e motivi floreali, che rivestiva il pavimento in marmo. Nulla era cambiato in quel piccolo mondo, roccaforte dei suoi pensieri più intimi. Stesso profumo di libri, stessa quiete di sempre. Eppure, nel profondo della sua anima, ristagnava una strana insofferenza. “Tempo fa, tra queste quattro mura, riuscivo a far germogliare le mie emozioni, trasformandole in poesia. Ora, non c’è più spazio per i versi. Le parole non sono che macigni.” Rifletté, aggrottando le sopracciglia. La quotidianità della trincea aveva stravolto le sue convinzioni. Tra il fango e il filo spinato, aveva sfiorato più volte la falce della Nera Mietitrice, realizzando quanto la sua vita fosse perennemente appesa a un filo. Avvertì un nodo alla gola. “Vale la pena sacrificarsi per qualche assurda chimera?” Mormorò, osservando la cicatrice profonda sul polso sinistro, segno inconfutabile dell’empietà umana e motivo della convalescenza che perdurava, ormai, da mesi. Era palese che sia lui, sia i suoi compagni non fossero eroi, bensì insulse marionette, manovrate da un sadico e spietato burattinai. Impugnata nuovamente la penna, riprese la sua composizione.

Ho vissuto le atrocità del fronte e sopportato la sofferenza delle truppe; per tale ragione, non intendo più far parte di un sistema che infligge patimenti, per scopi che ritengo palesemente ingiusti.

Il cinguettio degli uccellini, proveniente dalla finestra dischiusa, richiamò la sua attenzione. Scostò la sedia e si allontanò dalla scrivania, raggiungendo, con lento incedere, il davanzale. Le fronde del salice piangente, che spiccava, maestoso, al centro del giardino, oscillavano, leggere, al dolce soffio del vento. I suoi grandi occhi, color nocciola, si riempirono di nostalgia. In un tempo lontano, in cui le battaglie non erano che il frutto della fantasia di un bambino, aveva trascorso interi pomeriggiai piedi di quell’imponente albero, immaginando di sfidare nemici di ogni sorta. Per qualche istante, si smarrì nei suoi ricordi. Rammentò il sorriso genuino di Hamo, suo fratello minore e fedele compagno di giochi, un ragazzo vivace e intraprendente, caduto a Gallipoli, in terra turca, nel corso di una cruenta missione. “Eri un uomo leale e coraggioso, Hamo. – Pensò, passandosi la mano tra ifolti capelli, nero corvino – Credevi di combattere per difendere la patria, invece ti sei immolato per le vacue bugie del governo. Non meritavi di morire, non in questo modo. “Sospirò, amareggiato, tornando al suo scrittoio. Intinse la punta della penna nella boccetta dell’inchiostro e proseguì le sue confessioni.

Non protesto contro la condotta militare della guerra, bensì contro gli errori politici e le menzogne, che stanno condannando a morte milioni di uomini. Per questo clamoroso inganno, non posso fare altro che esprimere il mio dissenso.

Una reminiscenza fulminea balenò nella sua mente, riportandolo sul fronte occidentale,un anno prima, all’inizio del mese di luglio. Era al comando del primo battaglione dei Royal Welch Fusiliers, in qualità di capitano. Si trovava a Guillemont, modesto villaggio francese, situato lungo la Somme, per prendere parte all’azione offensiva, lanciata dai suoi superiori, volta a espugnare le linee nemiche.Erano giornate angoscianti, interminabili, scandite da incessanti bombardamenti e feroci assalti. Le scorte alimentari erano prossime all’esaurimento; le unità incaricate avrebbero consegnato i rifornimenti soltanto verso la metà del mese, pertanto, insieme a David Bell, suo parigrado, aveva approfittato di un momento di tregua per allontanarsi dalla trincea, con l’intento di procacciare cibo. Dopo un’estenuante marcia, tra ruderi e sentieri limacciosi, sopraggiunsero al limitare di un bosco. “Siegfried, non sarà rischioso, avventurarsi lì? – Gli domandò David, perplesso – I tedeschi potrebbero tenderci un agguato.” Sorrise al suo commilitone. “Non ti preoccupare, amico! – Esclamò,poggiandogli una mano sulla spalla – Non troveremo anima viva. Coraggio, andiamo!” Imbracciarono il fucile e, con fare circospetto, avanzarono, tra i faggi e le querce,nella speranza di imbattersi qualche animale selvatico. Uno scricchiolio, proveniente dagli arbusti, situati ai piedi degli alberi, attirò la sua attenzione. Fermandosi, studiò il movimento dei rami e delle foglie. “Deve trattarsi di una lepre, il rumore è inconfondibile!” Pensò, colmo di entusiasmo. Non fece in tempo a premere il grilletto, che un’onda d’urto, seguita da un boato improvviso, lo scaraventò a terra. Frastornato dalla caduta, con la divisa infangata, si risollevò lentamente; “David, dove sei?” Urlò, affannato. Non vi fu risposta da parte del suo compagno. Voltandosi, notò, poco distante, una coltre di fumo, densa, salire verso il cielo. Si avvicinò, con passo lesto, scoprendo, con sgomento, i resti del corpo mutilato di Bell, inciampato, inavvertitamente, su una trappola esplosiva del nemico. “Oh, no, amico mio!” Esclamò, inorridito, sgranando gli occhi. In preda ai sensi di colpa, si accasciò e scoppiò in un pianto amaro.

“Povero David… Non avrei mai dovuto trascinarlo in quella boscaglia.” Rifletté, con un velo di rammarico nel cuore. Abbassò lo sguardo e riprese a scrivere di getto, senza più interrompersi.

“Siegfried!” Aveva appena ultimato il suo componimento, quando la voce di Theresa, sua madre, echeggiò per tutta la stanza. La sagoma della donna apparve sulla soglia, i lunghi capelli, d’un biondo ormai spento, raccolti sulla nuca, e gli occhi limpidi, come le acque di una sorgente. Benché solcato da qualche ruga, il suo viso conservava una grazia inaudita. “Siegfried, che ti succede? – Gli chiese, senza riuscire a celare il suo turbamento – Sono giorni che te ne stai qui, tutto solo. Mangi poco e, a stento, mi rivolgi la parola.” Il giovane ufficiale tacque; restò seduto e immobile, senza neppure voltarsi. La donna, avvicinatasi alla scrivania, gli sfiorò la guancia con il dorso delle dita. Siegfried si scostò, sollevandosi di scatto dalla sedia. “Va tutto bene, madre.” Rispose, infastidito. Theresa abbassò lo sguardo e scorse la lettera del figlio. La prese tra le mani e, dopo averla letta, impallidì. “Che intenzioni hai? – Domandò, con voce tremolante –Ti metterai in guai seri, se invierai questo scritto al tuo comandante. Verrai accusato di diserzione e la sorte che ti toccherà sarà terribile!” Siegfried strinse i pugni. “Non posso tacere gli orrori che ho vissuto. – Asserì, strappandole di mano il foglio –Ho visto centinaia di soldati cadere come mosche per le bugie insensate delle autorità politiche. Non intendo più essere una pecora, al seguito di qualche sciocco montone. I miei superiori devono conoscere la verità. Sono pronto a marcire in galera e a morire, se necessario!”

Gli occhi di sua madre si riempirono di lacrime.

“Siegfried, ragiona. Vale così poco la tua vita? Ti prego, non metterla a repentaglio per un impeto di follia!”

“Ormai ho deciso, madre. Mi assumerò ogni rischio!”

Il giovane ufficiale sigillò la lettera e, abbandonato il suo studio, scese rapidamente l’elegante scalone in legno, sino a raggiungere l’atrio, al pianterreno. Chiamò la governante e si fece portare il suo soprabito. Impietrita, Theresa lo osservava dal pianerottolo. “Figlio mio, ripensaci, ti scongiuro!” Esclamò, con la voce rotta dal pianto, nella speranza di dissuaderlo. Siegfried ignorò le suppliche della donna euscì di casa, senza proferire parola. Sostò, per un attimo, sull’uscio, levando lo sguardo verso il cielo. I suoi occhi, illuminati dai raggi del sole, brillavano di fierezza. “Spedirò questa lettera al Comandante Palmer, oggi stesso. – Pensò, risoluto – Lo farò per Hamo, per David e per tutti coloro che hanno combattuto con coraggio, sacrificando, invano, la propria esistenza. È giusto che le atrocità della guerra e le assurde menzogne del governo vengano rese note!”

Respirò profondamente e si diresse verso l’ufficio postale del paese. Un sorriso di soddisfazione comparve sulle sue labbra, mentre rammentava le righe conclusive del suo scritto, consapevole che le sue dichiarazioni avrebbero destato l’attenzione delle alte cariche dello Stato e dell’esercito britannico.

Sono fermamente convinto, Comandante Palmer, che le mie parole possano smuovere l’animo di tutti coloro che, per viltà o per puro tornaconto, sottovalutano la cruda realtà che, noi combattenti, siamo costretti, ogni giorno, a subire.

*Siegfried Loraine Sassoon

(Matfield, Regno Unito 15 giugno 1917 – Heytesbury, Regno Unito 1 settembre 1967): poeta, scrittore e ufficiale inglese, principalmente noto per i suoi componimenti, dai toni satirici, contro le atrocità della Grande Guerra. Nel 1917 scrisse una lettera al suo comandante, in cui esprimeva il suo dissenso in merito al conflitto e alle menzogne diffuse dalla propaganda britannica. Tale componimento fu trasmesso alla stampa e letto in Parlamento. Per questo suo atto di protesta, Sassoon fu dichiarato incapace di intendere e di volere, e ricoverato presso il Craiglockhart War Ospital, in Scozia, con la diagnosi di neurastenia.