Racconto di Doris Bellomusto

(Prima Pubblicazione – 2 dicembre 2020)

 

 

Lei è una magàra e non sa quanti anni ha, all’anagrafe quaranta, ma sa di aver vissuto altre vite in altri mondi. Se lo chiede alla sua pelle sa concederle brividi che vanno oltre il presente, in uno spazio bianco che non conosce tracce della sua umana presenza. Se lo chiede agli occhi le dimostrano la verginità di tutte le cose, ma proprio sotto il suo sguardo tutte le cose perdono la loro purezza e muoiono. Eppure non sa rinunciare a guardare il mondo, a nutrirsi della sua luce.

Le magàre con cui è cresciuta le hanno insegnato a spiare negli angoli più nascosti, a scovare segreti, a rubare tempo e a moltiplicarlo, a stare comoda negli sguardi che incontra, a sfiorare la pelle degli altri. Poi la vita nel suo scorrere cerca sempre di sottrarla ai suoi sacri impegni, ma lei resta fedele a sé stessa, imperterrita.

Stamattina le è venuto in mente il miracolo di San Gennaro; crede di aver conosciuto un uomo che funziona allo stesso modo. Un giorno, dopo tanta tristezza, a lei sconosciuta, questo uomo ha pensato bene di raggrumare il suo sangue e sciogliersi solo per fare miracoli da niente. Gli piacciono le donne, ma non necessariamente ne desidera sensualità, piuttosto delle donne apprezza l’abitudine buona di venire a patti con la complessità del quotidiano e delle relazioni umane, che nelle trame del quotidiano si impigliano. Lei sente addosso una strana tenerezza per quest’uomo di mezz’età, perso fra i suoi amori ridicoli. È una maschera, forse è Arlecchino, ha tanti colori, ma non li usa tutti.

Ha paura di imbrattare la sua tela e questa è una paura buona perché gli evita di sporcare i suoi giorni. Usa colori chiari e luminosi, li sparge sulla tela con pennellate veloci e mano sicura, poi lascia fare alla luce il resto del lavoro. Gli piace la vita, ma l’amore per il suo tempo è la conseguenza naturale del suo essere al mondo, come dire che ha fatto di necessità virtù. Gli sfugge il senso di questo carnevale, ma giacché è qui fa la sua parte, si gusta la fetta di torta che gli è toccata, sbocconcella qua e là. Si sfama, si vizia, ma senza eccessi. Conosce l’arte della moderazione che lei non sa apprendere. Lei accumula colori, sapori, odori, umori, amori, strade, spicchi di cielo, ticchettio di orologi, fusa di gatti, musica, libri, incanti. Fa rumore. Fa nu frusciu e nu fragasciu ca si spacca u cori tutti i juorni. Il loro impalpabile legame nasce dalla mescolanza di bianco e nero, di piano e forte, di lento e veloce, di parole e silenzi. Fra i tanti simboli che si passano, come fossero biglie con cui giocare, quello che lei preferisce è lo yin/yang. Sono di forma sferica, non conoscono la spigolosità dei poligoni e meno che mai dei poliedri. La sfera che li contiene è tante cose: è la sfera di vetro di una fattucchiera, ma ci si riflette il passato e non il futuro; è il Super Santos con cui hanno giocato, che hanno preso a calci sulla strada e sulla spiaggia e che hanno dimenticato nel bagagliaio di una vecchia auto. Immagino che fosse una 126 bis, a lei ha fatto sempre tanta simpatia, così piccola e garbata. Una macchinina da niente, ma che potrebbe portarli al mare o in Sila.

E così potrebbero viaggiare leggeri e liberi con un Super Santos nel bagagliaio e due panini con la ‘nduja, perché se andranno da qualche parte sarà in Calabria, a dannarsi e a benedire tutta quella bellezza sprecata. Vengono da lì, da quella terra magàra che gli ha dato in eredità l’anima errante del vento e del mare. Forse è per questo che le loro fantasie sono impastate di aria e di acqua. È molto probabile che tutto questo sia il frutto di una fantasia e che ogni parola si sciolga in niente non appena io, improvvisata Sherazade, smetterò di scrivere. E allora saranno muti.

Muti come tante cose in natura: l’erba quando cresce; la neve quando cade; il tempo senza gli orologi; i capelli quando si allungano o quando cadono; il sangue; la terra nel suo moto di rotazione e rivoluzione; la luce nel suo viaggio; i pesci.