Racconto di Teodoro Di Leva

(Prima pubblicazione – 28 ottobre 2020)

 

 

 

Ci fu un tempo, molti lo ricorderanno chiaramente, che, nel paese della nostra infanzia, adagiato tra cielo e mare, le giornate e le stagioni trascorrevano pigramente, lente e inesorabili come un vasto fiume giallo. Le notti erano lunghe, stellate e silenti. All’alba i pescatori armavano i mestieri e partivano in cerca dei branchi di castardelli, seguendo la scia spumeggiante dei delfini. A forza di remi arrivavano fino in Sicilia, a volte, oltre, in vista della costa africana dove potevano scorgere, sulla cima delle dune del deserto, le interminabili carovane di cammelli simili a file di formiche sull’orlo d’una foglia secca.

Quando rientravano in porto, restava ancora luce bastevole per scaricare il pescato e dare una ripulita alle barche. Poi fumavano silenziosamente una sigaretta scrutando il mare e la volta del cielo dove, a poco a poco, nascevano le stelle. Il sole attendeva paziente sospeso sul mare. Solo quando i pescatori drizzavano la schiena e lanciavano via il mozzicone della sigaretta, solo allora il sole si lasciava cadere dietro l’orizzonte rosato. Il crepuscolo si attardava, lento e solenne. La notte era lunga, stellata e silente. I pescatori facevano all’amore con le loro donne e si riposavano, poi, per riprendere le forze per il giorno successivo.

Ma una notte terribile una luna rossa avvampò nel cielo. Tacquero i grilli all’improvviso, e i cani alla catena rischiarono di strozzarsi in preda ad un incontenibile terrore.

Qualcuno sentenziò: è la guerra! – e non si sbagliava.

Il mattino seguente i giovani calzarono scarponi chiodati, indossarono la divisa grigio-verde di ruvido panno, si issarono sulle spalle lo zaino ed il moschetto. Andarono via senza voltarsi mentre le madri si straziavano di lacrime.

L’esercito nemico era formato da esseri giganteschi assetati di sangue, guerrieri spietati avvezzi alla battaglia, sovrastanti in numero e in dedizione alla ferocia. I nostri impararono ben presto ad uccidere ed a nascondersi sotto i corpi dei caduti per eludere le lame brunite delle baionette: divennero anche loro crudeli, falsi e vigliacchi, doti indispensabili a chi semina morte. Acquisirono qualità disumane e persero per sempre l’innocenza.

Finita la guerra, tornarono a casa e, benché fossero scampati alla morte, sopra le case del paese, da allora, sovrastò incombente una spessa coltre di paura.

Col tempo alcune ferite rimarginarono, altre restarono vive sotto la pelle e vennero ereditate dai figli e poi dai figli dei loro figli.

Tempo dopo, giunsero in paese turisti rumorosi che pagarono con monete d’argento il diritto di usurpare quei lidi. I pescatori, ovunque calassero le reti, le ritiravano immancabilmente colme di pesci guizzanti. Comprarono, allora, motori potenti per le loro barche, per inseguire il tempo che non si fermava più ad attenderli. Comprarono macchine lucenti e televisori a colori, comprarono le cose utili e, soprattutto, quelle inutili in gran quantità.

Ma l’incanto era svanito! Svanite le notti affatate e le domeniche che sapevano di giorno di festa. Nel cielo notturno le stelle si erano sbiadite…. Il dono del tempo non lo ritrovarono mai più. Quel dono meraviglioso lo avevano perduto per sempre.