Racconto di Apolae

(Prima pubblicazione)

 

Mi costava una fatica mica da ridere, scostare le coperte pesanti e schiudere il mio batuffolo di tepore, morbido materasso non avrei mai voluto prenderla quella cornetta, eppure trillava senza arrendersi, allora mi decisi più che altro per pietà verso i miei poveri timpani mattutini, così delicati e facili da infastidire il sabato mattina, capite.

-Pronto? – abbozzai.

Niente. Già avevano riattaccato. Non era neanche cosa da arrabbiarsi, perché vinceva la gioia di tornare a spalmarsi sul materasso a cervello spento, come un velo di miele sul toast caldo, oppure rannicchiato come una noce di burro sulla biscottata. Un languorino già si percepiva, sentite, il sordo scrocchio dello stomaco, ma in quel caso pareva l’anticamera di un sogno, gnam, la fase REM pre-colazione, così mi riaddormentai fino al trillo successivo. Drin drin drin. Raggiunsi il telefono in punta di piedi, col pavimento ancora freddo perché quell’estate non voleva saperne di cominciare a scaldarsi.

-Chi è? – stavolta con un tono più deciso.

-Ciao, sono io. Dormivi? – chiese Capitan Ovvio, che certo non mi aspettavo di sentire all’alba.

-No, no. Figurati. Dimmi tutto- l’accenno di cordialità che immaginavo per la risposta venne fuori abbastanza male.

-Ecco, beh. Vieni al solito posto? – domandò sapendo che non avrei potuto rifiutare, pena sentirmi in colpa per l’intero weekend.

-Metto una maglia e arrivo, tranqui- fu la mia resa.

Riagganciai con un gesto meccanico, a farmi un pippone mentale sul motivo di una chiamata del genere. A quell’ora, poi. Mangiai in fretta e uscii sul Booster, giacchetta e occhiali da sole, diretto alla Nave di Cascella. Una volta arrivato, credetemi, avrei potuto aspettarmi veramente qualsiasi cosa, bella o brutta che fosse. Le palme accarezzavano gli stabilimenti sul tratto di lungomare che mi separava dall’arrivo, qualche mamma col passeggino già pattugliava la spiaggia approfittando del sole ancora debole. Parcheggiai di fronte a Panta rei e inserii il blocca disco.

Si sarebbe detta una banale mattinata di nuvole gonfie e pigre, una specie di partita a nascondino tra il sole e gli uccelli, lenta, giocata mentre gli uomini erano troppo impegnati ad alzare gli occhi al cielo, che ognuno aveva i suoi cazzi, certo, e il sole e le nuvole lo avevamo già visto tutti, storia vecchia. Trovai Ivan alla fine della passerella, di spalle, zazzera castana e tuta biancazzurra. Attraversai la spiaggia fino ad affiancarlo, senza salutare perché tanto stava nel suo mondo e la mano tagliuzzata me lo diceva che qualcosa non andava, tremula sull’imbottitura logora del poggiamano, come se stesse per scivolare giù. Il suo sguardo seguiva il volo di un gabbiano sugli scogli, a palpebre socchiuse come se volesse pilotarlo con la forza del pensiero, lui, inchiodato a quella terraferma come un casuario dalle ali atrofizzate. Le sue iridi castane si riempivano dell’azzurro del mare, del giallo del sole, del bianco delle nuvole e di quell’uccello inconsapevole della propria libertà. Si affacciavano dalle orbite quasi volessero tuffarsi, giusto per sentirsi più in là, anche di poco soltanto.

-Ieri ho volato, sai? – sputò a sorpresa con la sua voce assente, voltandosi verso me quel tanto che bastava quando invece sembrava perso in un’altra dimensione.

-Figo. Anche a me piacerebbe- lo feci contento.

-Non è poi difficile, credimi- annuiva per autoconvincersi della minchiata.

-Ok- annuii con lui, controllando l’orario sullo Swatch.

-Dai, se vuoi ti aiuto io! – parve recuperare un briciolo di verve, visto che gli stavo dando corda, anche se un po’ mi dava sui nervi vederlo così convinto come se potesse prendermi per il culo.

Il mio atteggiamento cambiò contro la mia volontà, pensate, sebbene ci stessi provando a rimanere calmo. Gli volevo bene a Capitan Ovvio, ci conoscevamo dalle elementari, però passava spesso il limite e mi toccava abbassargli quella cresta dura.

-Ah, davvero potresti? – feci il poliziotto cattivo.

-Sì- mi sfidò allargando le narici come quando lo facevo sbroccare.

-Cioè tu non sai manco camminare e mo vuoi volare? – risposi senza guardarlo, perché non avrei retto la sua faccia, anche se quella volta la prese bene. Sembrava diverso.

Mi chiese di spingerlo sul bagnasciuga, anche se poi le ruote della carrozzella gli si impastavano con acqua e sabbia ed era una rottura pulirgliele. Lui continuava a guardarsi il cielo come se lo stesse vedendo per la prima volta, col walkman nelle orecchie che continuava a passargli qualche canzone, impassibile come una sfinge prima della risposta all’enigma. Il gabbiano volò via dagli scogli, le nuvole cambiavano forma in continuazione e minuscole onde sciabordavano sulle mie Nike e sul suo poggiapiedi. Ivan sorrise con una determinazione che non gli avevo mai visto prima, neanche nelle sessioni di fisioterapia in cui era andato meglio.

-Aiutami a stare dritto, per favore- disse asciutto.

Non so perché, sapete, ma quella volta fui io tremare. Gli diedi la mano.