Racconto di Annarita Campagnolo

(Prima pubblicazione – 30 settembre 2019)

 

Non lo volevo, ma a volte la vita ti mette in situazioni dalle quali è difficile uscire.

Col tempo ho capito che tutto ciò che accade, in realtà, è esattamente quello di cui si ha bisogno in quel preciso momento.

Era un giorno di primavera, inizi di maggio. Il periodo dell’anno in cui si è presi dallo struggimento, complici le giornate che si allungano, il clima mite che promette evasioni dalla cupezza dell’inverno.

Il tempo, insomma, del languido torpore, della nostalgia, degli innamoramenti. Della sensazione che i freni inibitori, raggelati dai rigori invernali, comincino ad allentarsi e la fantasia prenda strade impensabili.

Sentivo, dunque, il bisogno di tornare a sognare, accarezzare, giocare, come una giovane donna nel pieno risveglio dei sensi.

Lo avevo intravisto qualche volta, molto di sfuggita, ma continuavo a pensarci. I nostri sguardi si erano incrociati e l’intensità dei suoi occhi era diventata un tarlo per me.

Quella mattina sentii uno slancio, come un istinto primordiale che mi spinse a fare il primo passo.

Lo avvicinai con una scusa e avvertii subito un fremito. Ero affascinata, incantata dal quel corpo agile e bello, da quell’atteggiamento sfrontato e seducente. Dall’intelligenza dei suoi argomenti.

Tuttavia, fu difficile lasciarmi andare all’intimità. Mi ci volle del tempo per azzardare anche solo una carezza, nonostante lui mostrasse sincero interesse per me.

Ero timorosa perché le sue reazioni ai miei approcci non sempre sembravano positive.  A volte pareva persino infastidito dalla mia presenza, tanto da diventare aggressivo.

Spesso mi sentivo frustrata e mi maledicevo per essermi fatta avanti con lui. Non di rado piangevo di rabbia.

Avevo perso i miei punti fermi e la mia vita, le mie sicurezze, cominciavano a sgretolarsi.

Ormai trascuravo la casa, la famiglia, me stessa, perché il pensiero era rivolto costantemente a lui, così ribelle e anche ingrato, delle volte.

Il tempo sembrava volasse e intanto avevo riorganizzato, per quanto possibile, le mie giornate in funzione dei suoi bisogni.

Lui non aveva orari e pretendeva da me tutte le attenzioni a cui, incautamente, l’avevo abituato.

Mi cercava persino di notte, e io ero sempre lì, pronta ad accorrere.

La mattina era diventato quasi un rito aspettare la sua chiamata. Non so dire cosa mi spingesse a continuare, nonostante fossi spossata fisicamente e psicologicamente.

Mi dicevo che aveva bisogno di me e questo, in un certo senso, mi faceva sentire importante.

Intanto m’innamoravo sempre di più ed ero certa, adesso, di essere ricambiata. Sentivo in lui lo stesso mio trasporto quando, stanco dalla giornata, si lasciava andare su di me, quasi con violenza.

Eppure, un misto di disperazione e sollievo mi pervadeva, quando immaginavo la mia esistenza senza la sua presenza. Sentimenti contrapposti, ma ugualmente intensi, sballottavano il mio stomaco, la mia mente.

Guardavo al passato con nostalgia, talvolta. Perché, mi chiedevo, avevo voluto complicarmi le cose?

Tutto accade perché deve accadere, pensavo. Ma non riuscivo a comprendere quale potessero essere il beneficio e il senso di questa travolgente novità. Forse che avrei dovuto dare priorità ai sentimenti? Alle emozioni? All’istinto? Forse che, fino ad allora, mi ero quasi addormentata nella routine quotidiana, rendendo sterile il mio percorso di vita?

E mentre riflettevo lui era lì, che mi scrutava, quasi sentisse i miei pensieri e volesse gestire anche quelli.

Poi arrivò il giorno in cui, sopraffatta dalla fatica, decisi che era ora di staccarmene. Non riuscivo più a sopportare la precarietà del rapporto. Avevo bisogno di ritornare sulla terra ferma, ancorata alle mie vecchie abitudini.

Quella mattina mi scossi dalla condizione quasi ipnotica in cui mi trovavo, e presi di petto la situazione. Lo affrontai risoluta. Gli dissi che non potevo più sostenere quello stato di cose ed era arrivato il momento che lui uscisse dalla mia vita, così com’era entrato, senza troppi convenevoli.

Ecco, ce l’avevo fatta! Ora le mie giornate sarebbero tornate a scorrere lisce e senza patemi. Ero di nuovo padrona di me stessa.

Durò poco, in realtà, perché mi mancava, tanto da togliermi il respiro. Piansi tutte le mie lacrime, ricomposi il cuore e la mente e realizzai che era tardi, troppo tardi per poterne fare a meno.

Lo cercai. Lo trovai. Mi attendeva.

Era più bello che mai. I suoi occhi che splendevano come l’oro. Quel corpo flessuoso e muscoloso, i movimenti sicuri e languidi. Come avevo potuto anche solo immaginare di stargli lontana?

Lo presi tra le braccia. Gli accarezzai la testa, fremendo al tocco di quel pelo morbido, lucido e nero come la notte. Lo baciai sul musetto macchiato di bianco e giocai con le vibrisse lunghissime e impertinenti.

Sì, era uno stupendo esemplare di gatto europeo, il mio Zorba.

Iniziò a farmi le fusa, impastando sul mio petto, come a voler sigillare il nostro tacito accordo, basato sull’amore reciproco e sul rispetto della libertà di entrambi.

Ora, a distanza di anni, ci amiamo ancora, di un amore più controllato, più maturo, equilibrato.

Non abbiamo bisogno di spiegarci, ci capiamo al volo. Forse lui meglio di quanto possa fare io.

Il mio Zorba, che mi consola e mi asseconda quando sente che ne ho bisogno. Che mi allontana quando decide che devo sbrigarmela da sola.

Il mio gatto, che ha messo nell’ordine giusto le cose che contano veramente. Che spande la sua aura benefica nella casa e ai componenti della sua famiglia.

Questo essere misterioso e magico, che mi ha insegnato cosa voglia dire veramente la convivenza pacifica tra razze differenti.