Racconto di Iliana Comina

(Prima pubblicazione)

 

Sento il cigolio di un’altalena tra i battiti del cuore e vedo i piedi che raggiungono un blu assoluto, nessuna nuvola, la voglia di nuotare dentro tanta intensità mi stringe il respiro.

In autostrada odore di benzina e asfalto, da percorrere sperando di essere fortunati e arrivare in fondo.

Quando ero giovane non pensavo mai a come potesse finire in un attimo la vita, ma poi sei caduta da quell’altalena senza nemmeno un grido. Ti ha preso l’aria e ti ha uccisa la terra. Ora riposi lì sotto e penso alle metà di noi che ti hanno generata, alle nostre vite finite nel nulla. Abbiamo perso le tue gambe, i tuoi occhi e le nostre parti migliori.

L’aria ti ha rubata e se la terra avesse pietà si prenderebbe anche noi, se servisse a ritrovarti premerei io stessa il grilletto.

Eppure ci ostiniamo a vivere cose che non ci interessano più, siamo alberi storpi schiantati dal fulmine e stagliati verso la luna.

Mi sono fermata all’autogrill, devo bere qualcosa. C’è la solita umanità che si intinge nell’odore di caffè e pane bruciato.

Tutto. Come. Al. Solito.

No…oggi non proprio tutto. Un gatto si agita dentro un trasportino, gratta sul fondo e poi tira con le zampe la grata della porticina per liberarsi. Non c’è così caldo fuori perché l’hanno portato qui in mezzo alla confusione? Perché non è in macchina?

Pago il caffè ma non riesco ad andarmene, osservo il prigioniero, il vociare alto e i cucchiaini che cozzano sulle tazze rendono tutto più urgente, sento la sua ansia, la voglia di fuggire da rumori e umani sconosciuti.

Mi guardo intorno. Se lo sono dimenticato? Un’altra vita scordata dentro una gabbia, protetta dalla stessa grata che la terrorizza, penso a quanto uomini e animali condividano la stessa sorte.

“Sa chi ha lasciato qui il gatto?” Chiedo.

Il ragazzo al banco si sporge appena. “Non ne ho idea, non mi ero nemmeno accorto fosse qui, non miagola”.

Certo che non miagola idiota, ha paura! Il ragazzo fa finta di nulla ma è la mia faccia a parlare. Lo hanno abbandonato di certo, un film che ho visto mille volte…sarà andata più o meno così: se ne stanno andando in vacanza, magari hanno litigato perché il gatto non è abituato alla macchina e fa casino, per cui meglio lasciarlo qui, qualcuno lo prenderà. I due sono probabilmente giovani, lui è un bastardo prevaricatore, per cui lei alla fine decide di abbandonare la creatura per non irritarlo oppure è lei che non vuole sentirlo miagolare e lui pur di tenersela ben disposta all’arrivo in albergo molla il gatto per strada, magari lo aveva preso per farle vedere quanto ama gli animali e sia sensibile, salvo poi scoprire che la tizia non ne vuole sapere di pulire lettiere. Lui men che meno.

Sollevo il trasportino, capisco dal peso che è ancora un cucciolone, senza guardarlo gli dico “Ok amico, facciamo il viaggio insieme”.

Lo carico in macchina e mi chiudo dentro, è un azzardo ma devo provare a liberarlo, può aver sete e non bere da ore, se è incazzato a rimettercelo sarà un problema ma ci penserò dopo.

Ho un paio di bustine che mi porto sempre dietro, un’abitudine che abbiamo noi sfama sfigati.

Il gatto ansima dentro la gabbietta, ma non gratta più. Gli apro senza guardarlo. Rimane così, con solo una zampa fuori e il naso all’aria, gli avvicino l’indice, lo annusa e soffia. Non ringhia, è solo una posa.

Apro la bustina in un angolo e premo per far uscire la parte liquida, provo a mettergliela lentamente davanti al muso, le vibrisse si spingono avanti e pian piano si riallineano mentre lecca avidamente il contenuto. Siamo amici e non serve nemmeno spingerlo indietro, ritorna nel trasportino da sé e mettendosi con le zampe sotto.

Sono contenta.

Mentre giro la chiave per mettere in moto mi ascolto meglio. Sono davvero contenta. È una sensazione che avevo scordato ma dura poco, come ingrano la prima comincia il concerto. Faccio uno o due chilometri e il gatto si agita sempre di più, mi fermo e provo a coprirlo, una volta ripartita mi faccio aiutare dall’acustica dei Nicotine Dolls che spingono fuori il rumore di auto e sorpassi, Sam è sempre una garanzia, calma me, calma lui.

Ho avuto tanti animali, ma da quando Sara è scomparsa non riesco più ad accudire nemmeno me stessa, suo padre mi ha lasciata per questo, abbiamo ucciso entrambe la nostra parte materna, quella grande, assoluta, che ti fa portare avanti la vita comunque vada, facendoti sentire il dolore dell’altro e la necessità di curarlo. Noi ci siamo aiutati a diventare sordi a qualsiasi cosa, siamo guariti nel peggior modo possibile, allontanandoci da tutto.

Andrea ha provato a raggiungermi col tempo, ma io sono rimasta impiccata a un’altalena in una sera di luglio.

Ho seppellito mia figlia insieme al dono che avevo, quello di guarire gli animali. E per molto tempo ho pensato che Dio o chi per lui l’avesse presa per farmi saldare un conto, tante vite recuperate contro la sua volontà. Me li mandava moribondi e io li guarivo, mi puniva per la mia arroganza, per l’incapacità di arrendermi al suo volere.

L’ho pensato. Forse lo penso ancora.

Andrea ha provato a strapparmi questa fissazione mille volte, diceva che stavo impazzendo, che tentavo di punirmi solo per trovare un senso a una morte assurda.

L’ultima volta che ci siamo visti gli ho offerto un bicchiere mentre si faceva un pianto davanti a me. Non sentivo nulla, il mio cuore congelato era perso in qualche stanza che non trovavo più. Quando se ne è andato ho leccato la lacrima che gli era scivolata sul bordo del calice per convincermi che era stato qui.

Sono arrivata in albergo.

“Buona sera signora, bentornata! Le abbiamo riservato la stanza con il balcone.”

La mia preferita penso, da quella terrazza l’odore del mare arriva forte e mi risparmia quindici gocce di xanax per dormire.

“Grazie, ho un gatto con me, è un problema?”

Carlo si sporge come il ragazzo al bancone dell’autogrill, stessa espressione stupita.

“Nessun problema signora, basta che non sporchi”.

Mentre salgo in ascensore penso a come improvvisare una lettiera. La camera profuma di pulito, poso la gabbietta e mi tolgo scarpe e soprabito, apro la porticina.

Il tigrato rimane al suo posto mentre tiro fuori il pigiama dalla valigia, ho fame ma non voglio lasciarlo qui solo. Lo guardo, sta bene ed è tranquillo, ma non voglio lasciarlo qui solo.

Per la prima volta dopo quasi tre anni ho davvero voglia di mangiare e mi importa di un altro essere vivente. Questo pensiero mi coglie di sorpresa, non so se esserne felice o sentirmi in colpa.

Ho respinto qualsiasi cosa, amici, amore, piaceri di qualsiasi tipo per tanto tempo ma ora vorrei solo entrare in quella gabbia e sdraiarmi vicino a lui, vorrei che mi cercasse per farsi accarezzare, vorrei risentire la magia di quel legame che si crea con gli animali e va oltre la specie e le parole.

Faccio il numero della hall.

“Carlo scusi il disturbo, la cucina è ancora aperta?”

“Mi spiace signora ma il servizio è finito alle 9.30.”

“Non importa Carlo grazie lo stesso…”

“Signora aspetti…se vuole le posso far portare un trancio di pizza, non è una vera cena, ma c’è una pizzeria al taglio qui a due passi e la margherita non è niente male.”

Sorrido…una lacrima fugge e si infila tra le ciglia, – la pizza quadrata – così la chiamava Sara.

“Grazie Carlo, un quadrato di pizza andrà benissimo, mi porta anche un calice di prosecco? O qualcosa con delle bolle?

“Arrivo in dieci minuti signora”.

Esco sul terrazzo con la pizza e un’ottima intera bottiglia di prosecco, fredda al punto giusto, ho sempre ammirato l’abilità con cui i concierge riescono a cogliere lo stato d’animo degli ospiti con una sola occhiata.

La pizza è ottima e l’odore del mare più intenso del solito mi fa socchiudere gli occhi.

Il gatto mi salta in grembo e rimango immobile con il calice in mano, è un attimo che si dilata all’infinito e sospende il fiato, vorrei accarezzarlo ma ho paura che scappi, gira su sé stesso nervosamente e all’improvviso ecco, si ferma allungandosi verso la mia faccia, mi annusa il viso, sento il piacevole calore del suo respiro indagatore intorno alla bocca e a lato degli occhi.

Si allontana e mi guarda strizzando leggermente le palpebre, mi sta dicendo che si fida, mi ha scelta e vuole essere ricambiato.

Mi avvicino piano con il viso e mi regala una dolce vigorosa testata. Quel tocco mi scaraventa indietro, dentro una vita che ho completamente scordato ed ora ritorna prepotente in piccoli flash che sbriciolano il cemento colato sopra ad ogni tenerezza. Le fusa mi invadono il grembo e chiamano immagini felici della bambina, dei miei cani, di ossa aggiustate e mali guariti.

Affronto il tremolio di emozioni con un sorso di prosecco che profuma di glicine, le bolle mi regalano un piacere che cerco di trattenere.

Guardo il telefono, faccio il numero di Andrea.

“Sono io…sono a Eraclea, so che è tardi ma vorrei vederti, puoi venire in albergo?”

“Hai una voce strana, tutto bene vero Anna? Puoi dirmi se c’è qualcosa che non va…”

“Si, tutto bene…davvero.”

“Allora vieni tu qui da me, sono a casa.”

“Andrea…ho un gatto con me…non voglio lasciarlo solo, l’ho trovato oggi, lo hanno abbandonato in autogrill.”

“Porta anche lui! È carino? Avrà paura poverino…”

Sorrido con il telefono in mano ricordando perché la prima volta che l’ho visto mi è piaciuto così tanto…

“Ok, sarò lì tra 20 minuti, mi fermo a prendere un paio di tranci di pizza che devi assolutamente assaggiare, vuoi?”

Silenzio. Stringo il telefono, forse ci ha ripensato…

“Se non ti va, non la porto…”

“Si Anna mi va, vieni subito e porta tutto quello che vuoi, fai presto”.